martedì 22 marzo 2011

Il Disegno - selezionato per l'antologia Scelta o Destino -


IL DISEGNO

L’acqua aveva smesso di scorrere e l’asciuga capelli non ronzava più, eppure sua figlia ancora non appariva in cucina per il rito del caffè mattutino.
Si trattenne dal chiamarla per accertarsi che tutto andasse bene; sapeva che la risposta sarebbe stata quel:”Mamma!”, tra il divertito e il seccato, che sua figlia le riservava quando lei, scordandosi che non era più una bambina, la trattava come tale.
Finalmente sentì la chiave girare nella toppa della serratura, dopo pochi istanti  Elsa, sua figlia, entrò nella stanza.
Si sedettero una di fronte all’altra, come tutte le mattine, quello era il loro momento speciale: l’unico in cui potevano parlare da sole, liberamente.
Elsa era bellissima: aveva un viso forte e occhi unici, che sembravano abbracciare il mondo, ma che in quel momento le apparvero velati e distanti.
Conosceva quell’espressione, precedeva sempre un annuncio importante, spesso un cambiamento radicale nella vita della figlia.
Si portò alle labbra la tazzina, colma di caffè nero e amaro e attese, con un po’ di apprensione, che Elsa parlasse per prima.

In tutte le peggiori crisi della sua vita, quella donna un po’ rigida, che sorrideva di rado e non rideva mai, l’aveva sostenuta.
Forse non sempre aveva compreso pienamente le sue ragioni, ma le aveva comunque accettate, senza recriminazioni. Eppure, questa volta, non era certa dell’appoggio di sua madre.
Frugò in se stessa, alla ricerca di ogni briciola di coraggio:
“Mamma, - disse infine, con voce profonda e cupa – aspetto un bambino”.
Ebbe un lieve capogiro, come quando si respira troppo profondamente l’aria pura di montagna, un velo bianco le offuscò per un attimo la vista e le mancò la parola.
“ Non preoccuparti – si affrettò ad aggiungere sua figlia – è già tutto risolto”.
Deglutì più volte prima di riuscire a parlare, stupendosi di come la sua voce suonasse piatta, mente nella sua testa urlava.
“ Aspetti un bambino ed è già tutto risolto, che vuol dire, Elsa?”
La ragazza abbassò lo sguardo: “ Avrò il bambino e poi lo darò in adozione”.
Sua madre la guardava, attonita.
“E’ l’unica soluzione possibile: non ho scelto di avere questo bambino e non posso tenerlo”.
Un silenzio pesante, tangibile, cadde tra loro.
Le domande si affollavano nella sua mente, le salivano istintivamente alle labbra e
lei, con determinazione, le ricacciava in gola. Conosceva abbastanza se stessa e sua figlia per sapere che, in un momento così critico, ogni parola andava ponderata e pensata prima di essere detta.
Era certa che Elsa non avesse preso quella terribile decisione a cuor leggero: il tremito convulso che ora scuoteva le spalle di sua figlia, nel tentativo di trattenere il pianto, confermava la sua certezza.
Si alzò, girò intorno al tavolo,  abbracciò le spalle di sua figlia, appoggiando il capo sul suo: che buon odore aveva!
Quel semplice gesto bastò a demolire ogni tentativo di resistenza, le lacrime ruppero gli argini e i singhiozzi trattenuti riempirono il vuoto tra loro.
Per un tempo che le parve eterno si limitò a stringere quella testa calda e profumata sul petto, solo quando la sentì più calma la staccò da sé e disse con fermezza: “ Ora parliamo”.
Dopo gli ultimi mesi di solitudine, schiacciata tra l’angoscia della scoperta e la lacerazione del dubbio per Elsa, poter parlare, era un indicibile sollievo.
Sua madre ascoltò tutte le sue ragioni, snocciolate per convincere più se stessa che lei, quando ebbe terminato le disse: “ Tra tutte le cose che hai elencato, non ne trovo una valida abbastanza per dar via tuo figlio”.
Si sentì punta sul vivo e rispose aggressiva: “ Tranne il fatto, che non ho scelto io questa situazione che mi rovinerebbe la vita”.
“ E’ questo il punto Elsa? Continui a ripetere di non aver scelto tu, ma è possibile scegliere?
Io penso esista un disegno che va oltre il nostro volere e la nostra comprensione, troppo grande per vederlo nella sua totalità; possiamo solo sperare di cogliere l’attimo che ci appartiene e stringerlo, farlo nostro per il tempo che ci è concesso. Questo bambino, regalato dal caso, è il tuo attimo: è il tuo pezzetto del disegno.
Non conosco il fine ultimo di questo avvenimento, ma sono certa che esiste e tu, rinunciando a tuo figlio, rinuncerai a quella parte della tua vita che è sorpresa, meraviglia, avventura. Ti resterà l’illusione di aver scelto, di aver trionfato sul caso, di avere il controllo su tutto, basterà questo a riempirti la vita?”
“Dovrà bastare, mamma. Io so dove voglio andare e qual è la strada migliore per arrivarci. Le sorprese e le avventure non sono previste”
Elsa parlò con decisione, poi si alzò da tavola e uscì, lasciando la madre un po’ più vecchia e stanca.

Si sedette al volante, le parole di sua madre si accavallavano ai suoi pensieri.
Non poteva essere tutto affidato al caso, tutto volto ad un obbiettivo che nessuno poteva conoscere; doveva esistere un ordine, ne era certa.
Eppure quel piccolo essere cresceva in lei oltre ogni logica, oltre ogni ordine: forse, alla fine, la vita vince sempre.
Percepì un tremolio leggero, come lo sbattere delle ali di una farfalla, istintivamente si coprì il ventre con la mano…il bambino si muoveva per la prima volta!
Una tenerezza infinita la invase, immaginò di stringere quel corpicino caldo al suo, di cullarlo e tutte le barriere si sbriciolarono.
Rise forte, mentre lacrime di gioia e sollievo le bruciavano gli occhi, doveva dirlo a sua madre, subito.
Uscì dall’auto, attraversò la strada quasi correndo, non aveva ancora raggiunto il lato opposto quando uno schianto terribile la fece sobbalzare, si voltò.
Quel che restava di un furgoncino bianco formava con la sua auto un unico groviglio; il posto di guida, dove lei era seduta fino a pochi istanti prima, non esisteva più.
Guardò ipnotizzata quella scena devastante, mentre già i primi curiosi accorrevano. Prese il cellulare e compose, quasi alla cieca, il numero di sua madre:
“ Sono io, mamma. Torno a casa. Ho visto il disegno”.





martedì 4 gennaio 2011

Il Ritorno


Suo marito era  tornato.
Dopo trentadue anni di assenza più o meno giustificata da: “ Impegni di lavoro” e “ Passioni che tu non puoi comprendere”, si ripresentava sulla soglia della sua vita con  l'atteggiamento, tra lo sconfitto rassegnato e l'indomito, di un vecchio eroe che, stanco delle troppe battaglie combattute,   non chiede altro che pace e riposo.
Certo che, con quella fronte un po' troppo spaziosa, perché perfino il più generoso degli osservatori potesse considerarla indice d'intelligenza, piuttosto che calvizie. Il ventre, la cui evidente  propensione ad entrare sempre per primo in una stanza, altro non si poteva definire se non adipe e i recenti  baffoni sale e pepe, fatti crescere per mimetizzare  il labbro superiore, divenuto caduco a causa della protesi dentaria,  più che a eroe, suo marito la faceva pensare a un vecchio e basta.
Eppure, con la sua tipica arroganza e la quasi fastidiosa fiducia nel proprio fascino virile, che sempre lo avevano contraddistinto,  non perdeva occasione di lanciarle, dalla poltrona  con la quale ormai formava un unico, impressionante corpo mitologico: metà uomo e metà Ikea, occhiate ammiccanti  del tipo  “ Che ti farei...” 
Forse il rivoletto di saliva  all'angolo della bocca  se lo immaginava lei, ma l'immagine d'insieme le riusciva in ogni caso ripugnante.
 A volte un po' si vergognava dei sentimenti per nulla benevoli che provava nei confronti di quello che, molto in fondo e molto, molto tempo prima, aveva eletto a compagno della sua vita; vergogna che subito si dissolveva, al ricordo degli anni trascorsi ad aspettare, con l'incrollabile  fedeltà di un cane cieco, che suo marito tornasse in sé stesso e a casa.
 Per essere giusti e non voler togliere a quell'uomo tutti i meriti, a casa tornava  quasi ogni sera, solo che non si sapeva mai quando  né quanto si sarebbe fermato
Di solito  si concedeva graziosamente alla famiglia per il tempo della cena, consumata autocelebrando i propri successi lavorativi e sociali o blaterando sull' idolo sportivo di turno poi, adducendo senza fantasia né rimorso ritriti impegni di lavoro, si volatilizzava fino alla cena seguente.
Quando lei, la fortunata che dopo il lavoro tornava a casa a pulire, lavare, stirare, cucinare e badare ai tre figli, distrattamente concepiti dall'iperattivo consorte tra un'entrata e un'uscita, tentava di attirare l'attenzione sul fatto che, almeno un piccolo sostegno morale o una frase che non cominciasse con: “Io”,  avrebbero potuto creare un piacevole diversivo, un silenzio annoiato calava nella stanza, finché  un: “ Cambiando discorso...” riportava l'attenzione generale sul grand'uomo.
Per molto anni,  accecata dall'illusione dell'amore e convinta che fosse suo dovere far funzionare le cose, si era fatta piacere tutte le insopportabili stravaganze del marito: le disattenzioni, le mancanze, perfino i tradimenti che lui, con la leggerezza che solo una profondissima quanto insondabile stupidità potevano giustificare, le aveva imposto.
Poi, improvvisamente, si era svegliata.
Non era stato il risveglio sereno di chi ha goduto di un sonno tranquillo e ristoratore, ma piuttosto il sollievo doloroso di chi vede sorgere il giorno dopo una notte mezza insonne, terminata al pronto soccorso con una colica renale: il mattino dopo staresti meglio morto.
Riprendersi la vita è sempre una gran fatica, se poi capisci di averla data in pasto a un porco,  diventa una vera impresa ridare ai pezzi sparsi forma umana e dignità.
E' vero che si giura, pronunciando quella frase che, a ripeterla, sfrondata di fiori e confetti, suona più minacciosa di una condanna all'ergastolo: “Finché morte non vi separi”, anche perché,  oggi come oggi l'ergastolo non lo sconta più nessuno. Trent'anni al massimo che, con le attenuanti, la buona condotta e  indulti, diventano la metà.
Quindi, a volerla dire tutta, lei la sua galera l'aveva già scontata.
Aveva pagato con gli interessi il suo giovanile peccato di stupidità e ora poteva permettersi di provare, senza sussulti di coscienza, un sano astio verso il “coniuge prodigo”.
Ci erano voluti cinque anni, dopo la sua fatidica alba di resurrezione, ad accettare l’evidenza che, per suo marito, non era stata altro che una tuttofare gratuita e condiscendente e a liberarsi, almeno psicologicamente, della assurda dipendenza verso quell’uomo.
Altri  ne aveva impiegati a ritagliarsi, a fatica e in punta di piedi, piccoli spazi per se stessa; nulla di eclatante: una passeggiata solitaria la mattina presto, qualche vecchio film goduto in solitudine, nei lunghi pomeriggi d’inverno, tanti libri a farle compagnia di notte, mentre il caro coniuge si dedicava alla sua attività preferita: il randagismo sessuale.
A poco a poco aveva smesso di aspettare il ritorno del gaudente Ulisse, l’ansia dell’attesa l’aveva abbandonata, lasciando il posto al timore che lui tornasse troppo presto a invadere la sua quiete, a rubare il suo tempo.
Ora tutte le sue paure si erano materializzate nella figura grassa e flaccida di suo marito.
La pensione e gli acciacchi glielo avevano restituito, egoista e invadente come non mai e assolutamente deciso a far valere tutti i suoi diritti, senza esclusione.
Aveva cominciato a chiedere la colazione a letto, adducendo un perenne mal di capo che si placava solo dopo il primo caffè, poi aveva preteso di accompagnarla nella sua passeggiata quotidiana, rovinandole quel piccolo piacere con continue lamentele e infinite, insulse chiacchiere a soggetto unico: se stesso.
In casa si era impossessato di tutto, non c’era angolo che non portasse l’impronta del suo passaggio: posacenere stracolmi, bicchieri usati, giornali spiegazzati e mai letti…
“Marca il territorio” pensava lei con amarezza, rincorrendolo nel tentativo di evitare principi d’incendio per un mozzicone mal spento gettato sul tappeto o un allagamento causato da un rubinetto dimenticato aperto.
Non appena la vedeva seduta, magari con un libro, diventava assurdamente loquace e inquisitivo: neppure l’ostentato silenzio nel quale lei s’immergeva lo scoraggiava. Quando si rendeva conto di essere l’unico interlocutore di sé stesso, smetteva di parlare e iniziava a cantare.
Il televisore era divenuto dominio privato del caro coniuge, che si premurava di strapparle di mano il telecomando e cambiare immediatamente canale non appena lei si azzardava a sintonizzarsi su una trasmissione di suo gradimento.
“ Ancora ‘sta lagna! – esclamava con disprezzo, poi aggiungeva- sei sempre stata vecchia dentro tu,  non come me…”
Per dimostrarle l’ inossidabilità della propria gioventù suo marito la braccava continuamente,  con quel mezzo sorrisetto sornione stampato in faccia e lo sguardo ammiccante, la inseguiva letteralmente per tutta la casa, senza perdere occasione per palpeggiarla o alludere, neppure troppo sottilmente,  alle meravigliose vette che lui avrebbe potuto farle raggiungere, se solo lei fosse stata meno “frigida”.
Si rivolgeva a lei usando quel termine con una frequenza insopportabile e con quel tono tra l'annoiato e il disgustato che erano sempre stato il suo marchio di fabbrica, quando lei non agiva o reagiva secondo le sue aspettative e i suoi desideri.
Esasperata dall'atteggiamento del marito un giorno perse il controllo e, vomitandogli addosso tutte le  mancanze e i soprusi di anni, gli disse una volta per tutte di togliersi dalla testa che tra loro potesse mai più esserci qualcosa di diverso da quella convivenza coatta che, anzi, lei sperava di poter presto interrompere definitivamente.
Il marito reagì a quella rivelazione lasciando cadere dall'alto una delle sue frasi ad effetto: “ Hai le mestruazioni oggi? Ti facevo in menopausa…” poi  tutto continuò come se nulla fosse stato detto.
Accadde in un giorno come tanti.
Mentre lei si affaccendava in cucina il marito, sprofondato nella solita poltrona, sbuffava  come una locomotiva a vapore, maledicendo la noia e la TV.
Fu un attimo, lei gli passò inavvertitamente accanto, lui l'afferrò e la costrinse a sedersi sulle sue ginocchia.
“ Ohohoh -  esclamò maliziosamente mentre la tratteneva – mi sei caduta
sull'uccello!” 
Le pareti erano onde bianche, poi divennero spirali rosse, vorticanti come girandole impazzite, un calore innaturale le salì al volto, asciugandole la gola e velandole lo sguardo.
Concentrò tutta la sua volontà sulla mano destra, che ancora impugnava il coltello usato poco prima per disossare il maiale. Il braccio si sollevò in alto, rigido, preciso, poi piombò, come un fulmine.
Il coltello si conficcò nel torace di suo marito, spaccandogli il cuore e cancellando per sempre dal suo volto quel mezzo sorriso ammiccante.
“ Scusa caro, mi sei caduto sul coltello!” disse lei alzandosi.
Un meraviglioso silenzio riempiva la stanza.














giovedì 30 dicembre 2010

La Bestia


La Bestia


La porta d’ingresso si lamenta sui cardini, ho un sussulto involontario: prima o poi dovrò decidermi ad oliarla oppure abbatterla.
L’appartamento mi accoglie come sempre: freddo, buio e silenzioso. Sono fradicio di neve, stanco e affamato.
Accendo il riscaldamento: ci vorrà un po’ di tempo prima che l’ambiente si riempia di quel tepore che d’inverno significa “casa”; nel frattempo comincerò a preparare la cena.
La mia cucina è così piccola che a stento trovano posto un fornello, un tavolino e una sedia.
E’ desolante questo continuo riferimento all’uno, unico, solo. Del resto, dico a me stesso, io sono solo.
A detta di molti la mia è una condizione invidiabile: nessuna donna invadente che starnazza dal mattino alla sera per come, dove e perché lasci le scarpe. Nessun figlio, che ti regala soddisfazioni zero e guai a iosa. Non un cane o un gatto o un canarino che reclami le tue attenzioni. Soltanto una perfetta pace e tanto, tanto silenzio. A volte è così profondo e pieno che mi rimbomba nelle orecchie e poi in testa, come un tamburo.
Porto il piatto, pieno di qualcosa che ho mescolato senza interesse, nel soggiorno, mi accascio sul divano e accendo la TV, per spegnere il silenzio.
Voci sconosciute, gaie per forza, invadono l’aria. Distrattamente guardo la bellezza di turno dimenarsi, piena di buona volontà e nessun talento, sullo schermo: quanti denti ha quella ragazza? Sembra impossibile che una bocca umana possa contenerli tutti!
Tra un boccone e l’altro cambio canale, li ripasso tutti due volte
nell’illusione che, come per magia, salti fuori dallo schermo


qualcosa di vagamente interessante: battaglia persa in partenza.
Spengo tutto e ripiombo nel silenzio.
Resto seduto, il piatto sporco appoggiato sulle ginocchia, lo sguardo fisso nel vuoto. Il mio corpo è troppo pesante per sollevarlo da quel divano sfondato, mi sento svuotato, privo di energia. Avrei tante cose da fare e il tempo per farle, ma mi manca ogni volontà. Riesco solo a restare fermo, con lo sguardo perso e la mente  invasa da un’ unica assillante domanda, la stessa da mesi: “Perché?” Perché non torna? Perché è finita? Perché non mi ammazzo?
Conosco le risposte a tutte le domande, tranne  all’ultima, forse. In effetti, per quello che è diventata la mia vita: un niente assoluto, un pozzo senza fondo, un buco nero, la soluzione più logica sarebbe l’annientamento di questo guscio senza senso che è il mio corpo. Questa carcassa è l’ultimo legame che ho con il mondo. La vita, quella vera,  mi ha abbandonato da un pezzo.
Si chiamava Chiara, era la ragazza più bella e dolce sulla quale avessi posato lo sguardo: la risposta a tutti i miei sogni, tanto perfetta che non osavo neppure pensare che potesse accorgersi di me.
Mi accontentavo di  ammirarla a distanza di tre scrivanie: la sua schiena dritta, i gomiti bassi, ben aderenti ai fianchi mentre, instancabile, faceva correre le dita agilissime e sottili sulla tastiera del computer. I suoi capelli chiari e lisci, catturavano la luce fredda dei neon  rimandandola in piccoli arcobaleni e il suo viso, giovane e delicato, di cui spiavo il  riflesso nello
schermo, mi appariva come un fiore bianco tra le infinite, sterili colonne di numeri.
Era arrivata in azienda per la sostituzione temporanea di una vecchia collega della quale, ero certo, avrei sentito la mancanza, se non ne avessi scordato l’esistenza nello stesso istante in cui Chiara mi aveva sfiorato.
Non avrei mai avuto il coraggio di rivolgerle la parola e neppure uno sguardo troppo diretto: il mio corpo, ingombrante e scuro, gli occhi troppo vicini, dietro le lenti da astigmatico e l’ombra violacea della barba, sempre in agguato, erano deterrenti sufficienti per me, ma contro ogni aspettativa fu lei a cercarmi.
“ Scusa…”  al suono di quella voce sconosciuta avevo alzato la testa dal rapporto sul quale mi stavo praticamente addormentando e per poco non ero caduto dalla sedia: lei era in piedi accanto a me e mi sovrastava con la sua bionda bellezza.
Per un istante vagheggiai di essere davanti alla “Venere” del Botticcelli reincarnata poi, il poco  buon senso che ancora albergava in me all’epoca, m’impedì di gettarmi ai suoi piedi adorante, invece dissi : “ Prego?”
Detestai immediatamente il tono della mia voce, freddo e gracchiante, come un citofono vecchio, ma lei parve non accorgersi di nulla e, regalandomi il più splendente dei sorrisi, proseguì: “ Ho un problema con il mio PC, mi hanno detto di rivolgermi a te. Hai due minuti da dedicarmi?”.
Le avrei regalato tutta la vita, altro che due minuti!
Da quel primo approccio le cose andarono da sé: Chiara non era solo bellissima, un’intelligenza fuori dal comune, abbinata a una profonda umanità scevra da qualsiasi pregiudizio, facevano di lei una persona  unica. Amarla, per me, era una condizione naturale, come respirare. Il contrario mi stupiva, cioè che lei mi amasse.
Eppure era vero, oltre ogni logica, lei mi amava come nessuno mai; era evidente che non fingeva, che vantaggio ne avrebbe tratto?
Io non sono ricco, non sono bello, non sono neppure così brillante da poter aspirare, un giorno, a una posizione di rilevo sul lavoro. In breve sono un mediocre totale, senza possibilità né volontà di miglioramento.
Ero un tranquillo nessuno finché Chiara non decise di fare di me un uomo speciale, donandomi il suo amore.
“Tu non ti rendi conto di quanto sei meraviglioso, vero?” Mi ripeteva ogni volta che cercavo di schermirmi.
“Non vuoi proprio renderti conto di essere speciale.” Diceva abbracciandomi.
Se le chiedevo cosa trovasse in un tipo come me, rispondeva con gli occhi luccicanti di lacrime trattenute : “ Tu sei buono, dolce, intelligente, sensibile. Diverso dagli altri: tu sei tu”.
Le piaceva intrecciare le sue aristocratiche dita al vello nero e ricciuto che mi ricopre, abbondante, il petto; alternava le carezze a baci leggerissimi o piccoli soffi, che piegavano lievemente la peluria, provocandomi brividi di piacere: “ Che bello!- diceva come parlando a se stessa- adoro la tua “pelliccetta”, mio dolce urside.”
Io, che avevo sempre considerato quell’assurdo manto un terribile difetto, al punto da  vergognarmene, ridevo del suo vezzo e mi burlavo un po’ di lei, per nascondere la tenerezza che rischiava di spezzarmi il cuore.
Quando si trasferì a casa mia, bastò la sua sola presenza a illuminare quelle stanze grigie.
Com’era tipico di lei, non tentò in alcun modo di cambiare la mia casa o le mie abitudini: s’inserì nella mia vita semplicemente, diventandone subito la parte più importante.
 Chiese solo di poter appendere alcune fotografie; ne faceva di splendide, dense di una passione opulenta, sgargianti e luminose, eppure delicate: come lei.
Ora che guardo questi muri spogli, dove solo il segno dei chiodi è rimasto a testimoniare un passato migliore, capisco che, prima di Chiara, ho vissuto in bianco e nero.
Non ricordo come né quando cominciò: improvvisamente ebbi paura di perderla.
Per quanto Chiara fosse sempre la stessa con me e nulla nel suo comportamento desse credito ai miei timori, quel tarlo non cessava di torturarmi la mente con il suo incessante lavorio.
Divenni cupo e sospettoso :” Vuoi lasciarmi, vero?” le chiedevo a bruciapelo, senza alcuna ragione, con un tono tanto provocatorio, da esserne io stesso infastidito. A queste mie uscite lei rideva, mi baciava facendo schioccare le sue labbra sulle mie e rispondeva : “Certo! Non avrai creduto che facessi sul serio con te…”.
La noncuranza delle sue risposte mi urtava, per la prima volta la trovavo altezzosa, stupida, superficiale: come poteva non comprendere i miei sentimenti, le mie paure, i miei dubbi?
Una parte di me vedeva la realtà, non era Chiara ad essere cambiata, ma un’oscura nebbia  soffocava in me ogni ragione, rendendomi cieco e folle, schiavo, mio malgrado, della mia paranoia.
Per quanto mi sforzassi di tornare in me, una forza incontrollabile mi spingeva nel senso opposto; bastava un inezia a scatenare la bestia ringhiante che albergava nel mio petto, pronta ad aggredire.
Contavo le parole e gli sguardi che Chiara mi rivolgeva durante la giornata, se mi sembrava fossero meno di quelli del giorno precedente, la punivo chiudendomi in un ostinato mutismo.
Non attendevo altro che lei mi chiedesse la ragione del mio silenzio, per rimproverarle i suoi torti e colpevolizzarla per il mio malessere. Alle sue ragioni, rispondevo sempre allo stesso modo: “Non ti rendi neppure conto del male che mi fai.” 
Per il bene comune e per amore, la vedevo ogni giorno sforzarsi di dimostrare quanto poco fondate fossero le mie paure, ma questo suo affannarsi diveniva ai miei occhi solo una prova in più del vacillare dei suoi sentimenti.
“Se mi amasse non sentirebbe il bisogno di dimostrarmelo, sarebbe palese…” pensavo, continuando a vivere nel terrore di perderla, mentre facevo di tutto per allontanarla da me.
La situazione precipitò: divenni brusco e cattivo, non le davo tregua, incalzandola con continui, estenuanti interrogatori, criticandola in tutto, dagli abiti al modo di parlare o ridere; arrivai ad insultarla.
Toccai il fondo una notte: dopo una terribile scenata la presi con la forza e con una violenza inaccettabile, le feci male, ma mi giustificai pensando che le sue ferite sarebbero guarite presto, la mia anima tormentata mai.
Chiara, sempre così allegra, si fece silenziosa e triste; perse l’appetito, perfino i suoi capelli fatti di luce, divennero opachi e stopposi. Ora, quando le ricordavo le sue mancanze, piangeva in silenzio e io ne godevo: finalmente anche lei conosceva la sofferenza. Ero riuscito ad uccidere quel suo eterno sorriso. Finalmente, come me, conosceva la paura.
Fu un misero trionfo: senza recriminazioni Chiara lasciò me e
la mia casa.
Non si presentò più neppure al lavoro. La chiamai al telefono per giorni, continuamente, il suo numero era staccato. La cercai da tutte le amiche che conoscevo, mi appostai sotto la casa dei  suoi genitori,sperando di vederla, nulla. Sembrava essersi volatilizzata.
Oggi finalmente, dopo cinque mesi di ricerche, l’investigatore privato che ho ingaggiato per rintracciarla, mi ha portato buone notizie: il suo indirizzo.
 Non vive lontano, ma ha cambiato nome, usa quello della madre; si è tagliata i capelli e li tinge di un castano spento, sembra un po’ invecchiata, un po’ curva.
L’investigatore mi ha dato, con l’indirizzo, anche una fotografia che le ha scattato: è tutto il giorno che la guardo, come già un tempo, non riesco a fare a meno di ammirarla: è un sogno.
Devo trovare il modo di avvicinarla, di parlare. Non pretendo nulla, ho compreso il male che le ho fatto, la mia follia. Non spero che lei mi perdoni e se anche fosse disposta a farlo, io non lo vorrei.
Chiedo solo di espiare, per aver distrutto il  miracolo del suo amore per me; ma voglio che lei sappia che pago:  merita almeno questo.
Sono mesi che progetto come saldare il mio debito, come darle vendetta; ora che l’ho ritrovata tutto diventa possibile.
Mi alzo dal divano, ho le gambe anchilosate, devo essere rimasto seduto per ore nella stessa posizione, la casa è calda ora e il cibo, entrato in circolo, mi regala un po’ di energia.
So con esattezza cosa devo fare, ho ripassato il mio piano centinaia di volte in attesa di metterlo in pratica.
Prendo una busta, una di quelle gialle, imbottite e ci metto dentro le due chiavi che da tempo ho preparato. Scrivo un
Messaggio: cerco di essere breve e convincente, chiedo a Chiara di raggiungermi domenica mattina al gazebo dell’orchestra, nel parco della nostra città. E’ un luogo che conosciamo entrambi, era uno dei “nostri posti”.  Non le chiedo di venire sola se non se la sente, ma la scongiuro di farlo e di portare le chiavi che troverà nella busta, se vorrà.
Se un’ombra della mia amatissima Chiara ancora alberga in quella figuretta, ingobbita e pallida, che la foto mi rimanda, non mancherà all’appuntamento. Non potrà ignorare la mia preghiera disperata.
Finalmente sabato è arrivato. La notte avanza sul mattino, dal cielo scendono fiocchi  leggeri e asciutti che sembrano d’ovatta. La coltre di neve è così spessa che il paesaggio è mutato, quasi fatico a trovare il gazebo. Il parco è deserto a quest’ora; nel silenzio totale lo scricchiolio dei miei passi sulla neve intatta, offende l’orecchio.
Il gazebo è al centro di uno spiazzo circondato da lampioncini di foggia antica che, con la loro luce soffusa, di un giallo opaco, donano all’insieme un’atmosfera da favola.
Scelgo un lampione la cui base, arrivando dal sentiero principale, risulta nascosta dalla struttura del gazebo: l’ideale per me.
Estraggo dal mio zaino le catene e i lucchetti e comincio a spogliarmi: mi tolgo tutto, perfino l’orologio; faccio un mucchio dei miei abiti e li nascondo con cura in un cespuglio,
lontano da ogni tentazione.
Il calore abbandona rapidamente il mio corpo: la neve ghiacciata già mi pizzica la pianta dei piedi, ma sono determinato a portare a termine il mio piano. Ritorno accanto al lampione dove ho lasciato le catene, mi lascio cadere con la
schiena contro il palo e comincio l’opera: tre giri di catena intorno alle caviglie, lucchetto.
Tre giri di catena intorno al collo e al lampione, com’è fredda e pesante! Lucchetto.
Sono immobilizzato: ho le mani libere, ma il collo è bloccato contro il lampione tanto strettamente, che non posso neppure voltare il capo, così le caviglie.
La neve continua a scendere fitta e gelida: si posa sul mio corpo nudo, ogni fiocco è come un ago rovente che si conficca nella carne. Non sono trascorsi che pochi minuti e già il freddo mi sembra intollerabile: i denti battono da soli, i piedi e le mani cominciano a perdere sensibilità.
Provo un senso di perverso piacere in questa lenta agonia che mi sono imposta: il freddo mi prenderà lentamente, penetrando in me, come un veleno sottile, ci vorrà tempo prima che sopravvenga il torpore e ancora di più prima che il sangue, rilasciato tutto il calore, si trasformi in ghiaccio, fermando, per sempre, questo mio cuore dannato.
Spero che Chiara non arrivi troppo presto, non voglio essere salvato, desidero solo che lei mi veda così : nudo, inerme, offerto, violato nel corpo e nello spirito. Come lei, quella notte.
Rivedo, tra la neve che scende lenta, il suo volto: enorme, sfocato, come in una brutta dissolvenza cinematografica.
Aveva paura di me, lo leggevo nei suoi occhi sgranati, che non smettevano di cercare una via di scampo mentre io mi facevo sempre più vicino. Nel tremito delle sue labbra, dalle quali però
non usciva alcun suono.
Dal pallore livido della suo corpo, gelido di terrore, sotto le mia mani crudeli che lo percorrevano senza amore, piene del disprezzo della violenza.
Cosa ti ho fatto, amore mio, cosa! Come ho potuto perdere me
stesso a questo punto!
C’è qualcosa di così profondamente corrotto in me, da far parte della mia stessa natura.
E’ una bestia informe, acefala, una creatura insidiosa e insinuante, che si è celata per anni negli anfratti più reconditi della mia anima, tanto che neppure io ne conoscevo l’esistenza.
Il tuo ingenuo, sincero amore l’ha nutrita, rafforzata, resa impavida, desiderosa di punirti per il solo fatto di esistere ed essere troppo perfetta per essere vera.
Da sempre io ero suo, mi vedevo attraverso i suoi occhi immondi: brutto, stupido, inetto, incapace di suscitare altro che ribrezzo o scherno. Ignaro della vita, trovavo nel suo abbraccio malato l’unica certezza.
Paga del suo dominio incontrastato, essa sopiva in me e con me.
Quando la certezza del tuo amore mi ha reso più forte, più felice e sicuro, sentendo minacciata la sua proprietà, la bestia in me si è destata rabbiosa e, feroce, ha iniziato a scavare le caverne del dubbio, precipitandomi nel baratro della gelosia, nell’inferno dell’incertezza.
La sua voce era la mia che incessante ripeteva l’oscena tiritera: “ Stupido Illuso, ti lascerà...lascerà…lascerà…”
Quella parola detta e ridetta all’infinito, fino a rendermi pazzo, fino a storpiare l’evidenza della realtà, ha mutato le nostre esistenze.
Non nevica più, il freddo si è fatto più intenso:  è una lama blu nel mio petto, mi stronca il respiro, lo rende breve e doloroso.
Tento di piegare le ginocchia, ma le mie gambe non rispondono, sono assurdamente pesanti e quasi non le sento più. Sollevo le mani, le porto davanti agli occhi per guardarle: tremano convulse, rosse con le unghie cianotiche, ma ancora le controllo.
Non ho idea di quanto tempo sia trascorso, di quanto manchi all’alba tarda dell’inverno, ma non è ancora il momento di abbandonarsi al sonno che tanto preme per entrare, la pena è stata troppo breve, troppo lieve.
Vincendo il torpore prendo a massaggiarmi il corpo con tutta la forza che trovo: batto le mani fino a che il sangue riprende un poco il suo circolo, mi dolgono così tanto che non riesco a controllare le lacrime; le sento premere dietro le palpebre gonfie di freddo, ma non possono scorrere, solo mi bruciano gli occhi come se stessi guardando il sole direttamente.
Con i pugni chiusi mi percuoto il petto e le cosce; mi sembra che ogni colpo laceri carne, vene, tendini. Il formicolio che mi pervade è quasi intollerabile, mi sembra che un esercito infinito di insetti famelici mi azzanni la carne, per aprirsi una via d’uscita, ma lo scopo è raggiunto: un impercettibile calore mi rianima un poco.
Il cielo si sta facendo livido, con estenuante lentezza le tenebre cedono al giorno: presto lei verrà.
Mi chiedo se comprenderà il mio gesto, se userà le chiavi che le ho inviato per liberarmi dal mio supplizio e dalla mia colpa. Devo trovare la forza di resistere per chiedere perdono, per dirle un’ultima volta che l’amo oltre me stesso poi, potrò abbandonarmi all’oblio.
E’ luce piena ora. Un sole freddo accende un mondo bianco e immoto. Il gelo ha condensato le mie lacrime in un velo sottile di ghiaccio che mi offusca la vista, scorgo solo vaghe ombre.  Non potrei distinguere un tronco da un lampione, per me non sono che elementi scuri e verticali, ma riconosco l’ombra esile




che avanza lentamente tra la neve. Il mio cuore quasi fermo ha
un balzo inaspettato, mi squarcia il petto come un pugnale: “Grazie Dio, grazie! Lei è qui, è venuta!”.
Mi sforzo di muovermi: vorrei urlare il suo nome, perché mi scorgesse subito e corresse da me, ma dalla mia gola non esce che un debole lamento e il mio corpo è ormai paralizzato, posso solo aspettare.
“Presto, amore mio, vieni presto!” 
Ecco, mi ha visto! Si è bloccata improvvisamente, il corpo rigido, come questo mondo di ghiaccio.
Non posso scorgere la sua espressione, ma immagino i suoi occhi sgranati per la sorpresa, la bocca spalancata in un grido muto mentre la mente concepisce ciò che l’occhio vede.
Corre ora, incespicando nella neve alta e fresca, si avvicina…E’ qui!
Si getta su di me, mi tocca il volto, mi chiama, sento la sua voce lontana e distorta, come se parlasse in un bicchiere.
Colgo solo frammenti di parole : “ Dio mio, p..ché? …enti? P..lami…”
Percepisco appena il calore del suo corpo contro il mio mentre mi abbraccia, il tepore del suo fiato sulle mie labbra; mi sento in paradiso: lei è qui, è venuta da me,  lei mi ama!
Continua a parlarmi, a toccarmi, a piangere nel tentativo inutile di rianimarmi. Vorrei fermarla, dirle che non deve preoccuparsi
per me, che la mia vita non ha importanza, che gliene faccio dono, purché mi perdoni, purché non pensi più a me come a un mostro.
Ogni istante i momenti di luce si fanno più brevi, come i battiti del mio cuore, sento che il momento del passaggio è vicino e ho tanta voglia di abbandonarmi a quel sonno benedetto, per l’ultima volta nell’oblio delle sue braccia.
Improvvisamente avverto un cambiamento, il peso del suo corpo si fa più leggero, dice qualcosa :” vado…aiuto…” .      Vuole lasciarmi…maledetta! Non posso permetterlo.
Una forza nuova, una vampata d’inferno mi riempie, non mi lascerà un’altra volta: le braccia scattano, afferrano, stringono…un urlo, è lei... si divincola, vuole fuggire. Stringo di più..cerco la sua gola e stringo, stringo, stringo.
Non si muove più ora, è ferma e fredda, come la neve.
Non mi lascerà mai più.