martedì 22 marzo 2011

Il Disegno - selezionato per l'antologia Scelta o Destino -


IL DISEGNO

L’acqua aveva smesso di scorrere e l’asciuga capelli non ronzava più, eppure sua figlia ancora non appariva in cucina per il rito del caffè mattutino.
Si trattenne dal chiamarla per accertarsi che tutto andasse bene; sapeva che la risposta sarebbe stata quel:”Mamma!”, tra il divertito e il seccato, che sua figlia le riservava quando lei, scordandosi che non era più una bambina, la trattava come tale.
Finalmente sentì la chiave girare nella toppa della serratura, dopo pochi istanti  Elsa, sua figlia, entrò nella stanza.
Si sedettero una di fronte all’altra, come tutte le mattine, quello era il loro momento speciale: l’unico in cui potevano parlare da sole, liberamente.
Elsa era bellissima: aveva un viso forte e occhi unici, che sembravano abbracciare il mondo, ma che in quel momento le apparvero velati e distanti.
Conosceva quell’espressione, precedeva sempre un annuncio importante, spesso un cambiamento radicale nella vita della figlia.
Si portò alle labbra la tazzina, colma di caffè nero e amaro e attese, con un po’ di apprensione, che Elsa parlasse per prima.

In tutte le peggiori crisi della sua vita, quella donna un po’ rigida, che sorrideva di rado e non rideva mai, l’aveva sostenuta.
Forse non sempre aveva compreso pienamente le sue ragioni, ma le aveva comunque accettate, senza recriminazioni. Eppure, questa volta, non era certa dell’appoggio di sua madre.
Frugò in se stessa, alla ricerca di ogni briciola di coraggio:
“Mamma, - disse infine, con voce profonda e cupa – aspetto un bambino”.
Ebbe un lieve capogiro, come quando si respira troppo profondamente l’aria pura di montagna, un velo bianco le offuscò per un attimo la vista e le mancò la parola.
“ Non preoccuparti – si affrettò ad aggiungere sua figlia – è già tutto risolto”.
Deglutì più volte prima di riuscire a parlare, stupendosi di come la sua voce suonasse piatta, mente nella sua testa urlava.
“ Aspetti un bambino ed è già tutto risolto, che vuol dire, Elsa?”
La ragazza abbassò lo sguardo: “ Avrò il bambino e poi lo darò in adozione”.
Sua madre la guardava, attonita.
“E’ l’unica soluzione possibile: non ho scelto di avere questo bambino e non posso tenerlo”.
Un silenzio pesante, tangibile, cadde tra loro.
Le domande si affollavano nella sua mente, le salivano istintivamente alle labbra e
lei, con determinazione, le ricacciava in gola. Conosceva abbastanza se stessa e sua figlia per sapere che, in un momento così critico, ogni parola andava ponderata e pensata prima di essere detta.
Era certa che Elsa non avesse preso quella terribile decisione a cuor leggero: il tremito convulso che ora scuoteva le spalle di sua figlia, nel tentativo di trattenere il pianto, confermava la sua certezza.
Si alzò, girò intorno al tavolo,  abbracciò le spalle di sua figlia, appoggiando il capo sul suo: che buon odore aveva!
Quel semplice gesto bastò a demolire ogni tentativo di resistenza, le lacrime ruppero gli argini e i singhiozzi trattenuti riempirono il vuoto tra loro.
Per un tempo che le parve eterno si limitò a stringere quella testa calda e profumata sul petto, solo quando la sentì più calma la staccò da sé e disse con fermezza: “ Ora parliamo”.
Dopo gli ultimi mesi di solitudine, schiacciata tra l’angoscia della scoperta e la lacerazione del dubbio per Elsa, poter parlare, era un indicibile sollievo.
Sua madre ascoltò tutte le sue ragioni, snocciolate per convincere più se stessa che lei, quando ebbe terminato le disse: “ Tra tutte le cose che hai elencato, non ne trovo una valida abbastanza per dar via tuo figlio”.
Si sentì punta sul vivo e rispose aggressiva: “ Tranne il fatto, che non ho scelto io questa situazione che mi rovinerebbe la vita”.
“ E’ questo il punto Elsa? Continui a ripetere di non aver scelto tu, ma è possibile scegliere?
Io penso esista un disegno che va oltre il nostro volere e la nostra comprensione, troppo grande per vederlo nella sua totalità; possiamo solo sperare di cogliere l’attimo che ci appartiene e stringerlo, farlo nostro per il tempo che ci è concesso. Questo bambino, regalato dal caso, è il tuo attimo: è il tuo pezzetto del disegno.
Non conosco il fine ultimo di questo avvenimento, ma sono certa che esiste e tu, rinunciando a tuo figlio, rinuncerai a quella parte della tua vita che è sorpresa, meraviglia, avventura. Ti resterà l’illusione di aver scelto, di aver trionfato sul caso, di avere il controllo su tutto, basterà questo a riempirti la vita?”
“Dovrà bastare, mamma. Io so dove voglio andare e qual è la strada migliore per arrivarci. Le sorprese e le avventure non sono previste”
Elsa parlò con decisione, poi si alzò da tavola e uscì, lasciando la madre un po’ più vecchia e stanca.

Si sedette al volante, le parole di sua madre si accavallavano ai suoi pensieri.
Non poteva essere tutto affidato al caso, tutto volto ad un obbiettivo che nessuno poteva conoscere; doveva esistere un ordine, ne era certa.
Eppure quel piccolo essere cresceva in lei oltre ogni logica, oltre ogni ordine: forse, alla fine, la vita vince sempre.
Percepì un tremolio leggero, come lo sbattere delle ali di una farfalla, istintivamente si coprì il ventre con la mano…il bambino si muoveva per la prima volta!
Una tenerezza infinita la invase, immaginò di stringere quel corpicino caldo al suo, di cullarlo e tutte le barriere si sbriciolarono.
Rise forte, mentre lacrime di gioia e sollievo le bruciavano gli occhi, doveva dirlo a sua madre, subito.
Uscì dall’auto, attraversò la strada quasi correndo, non aveva ancora raggiunto il lato opposto quando uno schianto terribile la fece sobbalzare, si voltò.
Quel che restava di un furgoncino bianco formava con la sua auto un unico groviglio; il posto di guida, dove lei era seduta fino a pochi istanti prima, non esisteva più.
Guardò ipnotizzata quella scena devastante, mentre già i primi curiosi accorrevano. Prese il cellulare e compose, quasi alla cieca, il numero di sua madre:
“ Sono io, mamma. Torno a casa. Ho visto il disegno”.





martedì 4 gennaio 2011

Il Ritorno


Suo marito era  tornato.
Dopo trentadue anni di assenza più o meno giustificata da: “ Impegni di lavoro” e “ Passioni che tu non puoi comprendere”, si ripresentava sulla soglia della sua vita con  l'atteggiamento, tra lo sconfitto rassegnato e l'indomito, di un vecchio eroe che, stanco delle troppe battaglie combattute,   non chiede altro che pace e riposo.
Certo che, con quella fronte un po' troppo spaziosa, perché perfino il più generoso degli osservatori potesse considerarla indice d'intelligenza, piuttosto che calvizie. Il ventre, la cui evidente  propensione ad entrare sempre per primo in una stanza, altro non si poteva definire se non adipe e i recenti  baffoni sale e pepe, fatti crescere per mimetizzare  il labbro superiore, divenuto caduco a causa della protesi dentaria,  più che a eroe, suo marito la faceva pensare a un vecchio e basta.
Eppure, con la sua tipica arroganza e la quasi fastidiosa fiducia nel proprio fascino virile, che sempre lo avevano contraddistinto,  non perdeva occasione di lanciarle, dalla poltrona  con la quale ormai formava un unico, impressionante corpo mitologico: metà uomo e metà Ikea, occhiate ammiccanti  del tipo  “ Che ti farei...” 
Forse il rivoletto di saliva  all'angolo della bocca  se lo immaginava lei, ma l'immagine d'insieme le riusciva in ogni caso ripugnante.
 A volte un po' si vergognava dei sentimenti per nulla benevoli che provava nei confronti di quello che, molto in fondo e molto, molto tempo prima, aveva eletto a compagno della sua vita; vergogna che subito si dissolveva, al ricordo degli anni trascorsi ad aspettare, con l'incrollabile  fedeltà di un cane cieco, che suo marito tornasse in sé stesso e a casa.
 Per essere giusti e non voler togliere a quell'uomo tutti i meriti, a casa tornava  quasi ogni sera, solo che non si sapeva mai quando  né quanto si sarebbe fermato
Di solito  si concedeva graziosamente alla famiglia per il tempo della cena, consumata autocelebrando i propri successi lavorativi e sociali o blaterando sull' idolo sportivo di turno poi, adducendo senza fantasia né rimorso ritriti impegni di lavoro, si volatilizzava fino alla cena seguente.
Quando lei, la fortunata che dopo il lavoro tornava a casa a pulire, lavare, stirare, cucinare e badare ai tre figli, distrattamente concepiti dall'iperattivo consorte tra un'entrata e un'uscita, tentava di attirare l'attenzione sul fatto che, almeno un piccolo sostegno morale o una frase che non cominciasse con: “Io”,  avrebbero potuto creare un piacevole diversivo, un silenzio annoiato calava nella stanza, finché  un: “ Cambiando discorso...” riportava l'attenzione generale sul grand'uomo.
Per molto anni,  accecata dall'illusione dell'amore e convinta che fosse suo dovere far funzionare le cose, si era fatta piacere tutte le insopportabili stravaganze del marito: le disattenzioni, le mancanze, perfino i tradimenti che lui, con la leggerezza che solo una profondissima quanto insondabile stupidità potevano giustificare, le aveva imposto.
Poi, improvvisamente, si era svegliata.
Non era stato il risveglio sereno di chi ha goduto di un sonno tranquillo e ristoratore, ma piuttosto il sollievo doloroso di chi vede sorgere il giorno dopo una notte mezza insonne, terminata al pronto soccorso con una colica renale: il mattino dopo staresti meglio morto.
Riprendersi la vita è sempre una gran fatica, se poi capisci di averla data in pasto a un porco,  diventa una vera impresa ridare ai pezzi sparsi forma umana e dignità.
E' vero che si giura, pronunciando quella frase che, a ripeterla, sfrondata di fiori e confetti, suona più minacciosa di una condanna all'ergastolo: “Finché morte non vi separi”, anche perché,  oggi come oggi l'ergastolo non lo sconta più nessuno. Trent'anni al massimo che, con le attenuanti, la buona condotta e  indulti, diventano la metà.
Quindi, a volerla dire tutta, lei la sua galera l'aveva già scontata.
Aveva pagato con gli interessi il suo giovanile peccato di stupidità e ora poteva permettersi di provare, senza sussulti di coscienza, un sano astio verso il “coniuge prodigo”.
Ci erano voluti cinque anni, dopo la sua fatidica alba di resurrezione, ad accettare l’evidenza che, per suo marito, non era stata altro che una tuttofare gratuita e condiscendente e a liberarsi, almeno psicologicamente, della assurda dipendenza verso quell’uomo.
Altri  ne aveva impiegati a ritagliarsi, a fatica e in punta di piedi, piccoli spazi per se stessa; nulla di eclatante: una passeggiata solitaria la mattina presto, qualche vecchio film goduto in solitudine, nei lunghi pomeriggi d’inverno, tanti libri a farle compagnia di notte, mentre il caro coniuge si dedicava alla sua attività preferita: il randagismo sessuale.
A poco a poco aveva smesso di aspettare il ritorno del gaudente Ulisse, l’ansia dell’attesa l’aveva abbandonata, lasciando il posto al timore che lui tornasse troppo presto a invadere la sua quiete, a rubare il suo tempo.
Ora tutte le sue paure si erano materializzate nella figura grassa e flaccida di suo marito.
La pensione e gli acciacchi glielo avevano restituito, egoista e invadente come non mai e assolutamente deciso a far valere tutti i suoi diritti, senza esclusione.
Aveva cominciato a chiedere la colazione a letto, adducendo un perenne mal di capo che si placava solo dopo il primo caffè, poi aveva preteso di accompagnarla nella sua passeggiata quotidiana, rovinandole quel piccolo piacere con continue lamentele e infinite, insulse chiacchiere a soggetto unico: se stesso.
In casa si era impossessato di tutto, non c’era angolo che non portasse l’impronta del suo passaggio: posacenere stracolmi, bicchieri usati, giornali spiegazzati e mai letti…
“Marca il territorio” pensava lei con amarezza, rincorrendolo nel tentativo di evitare principi d’incendio per un mozzicone mal spento gettato sul tappeto o un allagamento causato da un rubinetto dimenticato aperto.
Non appena la vedeva seduta, magari con un libro, diventava assurdamente loquace e inquisitivo: neppure l’ostentato silenzio nel quale lei s’immergeva lo scoraggiava. Quando si rendeva conto di essere l’unico interlocutore di sé stesso, smetteva di parlare e iniziava a cantare.
Il televisore era divenuto dominio privato del caro coniuge, che si premurava di strapparle di mano il telecomando e cambiare immediatamente canale non appena lei si azzardava a sintonizzarsi su una trasmissione di suo gradimento.
“ Ancora ‘sta lagna! – esclamava con disprezzo, poi aggiungeva- sei sempre stata vecchia dentro tu,  non come me…”
Per dimostrarle l’ inossidabilità della propria gioventù suo marito la braccava continuamente,  con quel mezzo sorrisetto sornione stampato in faccia e lo sguardo ammiccante, la inseguiva letteralmente per tutta la casa, senza perdere occasione per palpeggiarla o alludere, neppure troppo sottilmente,  alle meravigliose vette che lui avrebbe potuto farle raggiungere, se solo lei fosse stata meno “frigida”.
Si rivolgeva a lei usando quel termine con una frequenza insopportabile e con quel tono tra l'annoiato e il disgustato che erano sempre stato il suo marchio di fabbrica, quando lei non agiva o reagiva secondo le sue aspettative e i suoi desideri.
Esasperata dall'atteggiamento del marito un giorno perse il controllo e, vomitandogli addosso tutte le  mancanze e i soprusi di anni, gli disse una volta per tutte di togliersi dalla testa che tra loro potesse mai più esserci qualcosa di diverso da quella convivenza coatta che, anzi, lei sperava di poter presto interrompere definitivamente.
Il marito reagì a quella rivelazione lasciando cadere dall'alto una delle sue frasi ad effetto: “ Hai le mestruazioni oggi? Ti facevo in menopausa…” poi  tutto continuò come se nulla fosse stato detto.
Accadde in un giorno come tanti.
Mentre lei si affaccendava in cucina il marito, sprofondato nella solita poltrona, sbuffava  come una locomotiva a vapore, maledicendo la noia e la TV.
Fu un attimo, lei gli passò inavvertitamente accanto, lui l'afferrò e la costrinse a sedersi sulle sue ginocchia.
“ Ohohoh -  esclamò maliziosamente mentre la tratteneva – mi sei caduta
sull'uccello!” 
Le pareti erano onde bianche, poi divennero spirali rosse, vorticanti come girandole impazzite, un calore innaturale le salì al volto, asciugandole la gola e velandole lo sguardo.
Concentrò tutta la sua volontà sulla mano destra, che ancora impugnava il coltello usato poco prima per disossare il maiale. Il braccio si sollevò in alto, rigido, preciso, poi piombò, come un fulmine.
Il coltello si conficcò nel torace di suo marito, spaccandogli il cuore e cancellando per sempre dal suo volto quel mezzo sorriso ammiccante.
“ Scusa caro, mi sei caduto sul coltello!” disse lei alzandosi.
Un meraviglioso silenzio riempiva la stanza.