giovedì 30 dicembre 2010

La Bestia


La Bestia


La porta d’ingresso si lamenta sui cardini, ho un sussulto involontario: prima o poi dovrò decidermi ad oliarla oppure abbatterla.
L’appartamento mi accoglie come sempre: freddo, buio e silenzioso. Sono fradicio di neve, stanco e affamato.
Accendo il riscaldamento: ci vorrà un po’ di tempo prima che l’ambiente si riempia di quel tepore che d’inverno significa “casa”; nel frattempo comincerò a preparare la cena.
La mia cucina è così piccola che a stento trovano posto un fornello, un tavolino e una sedia.
E’ desolante questo continuo riferimento all’uno, unico, solo. Del resto, dico a me stesso, io sono solo.
A detta di molti la mia è una condizione invidiabile: nessuna donna invadente che starnazza dal mattino alla sera per come, dove e perché lasci le scarpe. Nessun figlio, che ti regala soddisfazioni zero e guai a iosa. Non un cane o un gatto o un canarino che reclami le tue attenzioni. Soltanto una perfetta pace e tanto, tanto silenzio. A volte è così profondo e pieno che mi rimbomba nelle orecchie e poi in testa, come un tamburo.
Porto il piatto, pieno di qualcosa che ho mescolato senza interesse, nel soggiorno, mi accascio sul divano e accendo la TV, per spegnere il silenzio.
Voci sconosciute, gaie per forza, invadono l’aria. Distrattamente guardo la bellezza di turno dimenarsi, piena di buona volontà e nessun talento, sullo schermo: quanti denti ha quella ragazza? Sembra impossibile che una bocca umana possa contenerli tutti!
Tra un boccone e l’altro cambio canale, li ripasso tutti due volte
nell’illusione che, come per magia, salti fuori dallo schermo


qualcosa di vagamente interessante: battaglia persa in partenza.
Spengo tutto e ripiombo nel silenzio.
Resto seduto, il piatto sporco appoggiato sulle ginocchia, lo sguardo fisso nel vuoto. Il mio corpo è troppo pesante per sollevarlo da quel divano sfondato, mi sento svuotato, privo di energia. Avrei tante cose da fare e il tempo per farle, ma mi manca ogni volontà. Riesco solo a restare fermo, con lo sguardo perso e la mente  invasa da un’ unica assillante domanda, la stessa da mesi: “Perché?” Perché non torna? Perché è finita? Perché non mi ammazzo?
Conosco le risposte a tutte le domande, tranne  all’ultima, forse. In effetti, per quello che è diventata la mia vita: un niente assoluto, un pozzo senza fondo, un buco nero, la soluzione più logica sarebbe l’annientamento di questo guscio senza senso che è il mio corpo. Questa carcassa è l’ultimo legame che ho con il mondo. La vita, quella vera,  mi ha abbandonato da un pezzo.
Si chiamava Chiara, era la ragazza più bella e dolce sulla quale avessi posato lo sguardo: la risposta a tutti i miei sogni, tanto perfetta che non osavo neppure pensare che potesse accorgersi di me.
Mi accontentavo di  ammirarla a distanza di tre scrivanie: la sua schiena dritta, i gomiti bassi, ben aderenti ai fianchi mentre, instancabile, faceva correre le dita agilissime e sottili sulla tastiera del computer. I suoi capelli chiari e lisci, catturavano la luce fredda dei neon  rimandandola in piccoli arcobaleni e il suo viso, giovane e delicato, di cui spiavo il  riflesso nello
schermo, mi appariva come un fiore bianco tra le infinite, sterili colonne di numeri.
Era arrivata in azienda per la sostituzione temporanea di una vecchia collega della quale, ero certo, avrei sentito la mancanza, se non ne avessi scordato l’esistenza nello stesso istante in cui Chiara mi aveva sfiorato.
Non avrei mai avuto il coraggio di rivolgerle la parola e neppure uno sguardo troppo diretto: il mio corpo, ingombrante e scuro, gli occhi troppo vicini, dietro le lenti da astigmatico e l’ombra violacea della barba, sempre in agguato, erano deterrenti sufficienti per me, ma contro ogni aspettativa fu lei a cercarmi.
“ Scusa…”  al suono di quella voce sconosciuta avevo alzato la testa dal rapporto sul quale mi stavo praticamente addormentando e per poco non ero caduto dalla sedia: lei era in piedi accanto a me e mi sovrastava con la sua bionda bellezza.
Per un istante vagheggiai di essere davanti alla “Venere” del Botticcelli reincarnata poi, il poco  buon senso che ancora albergava in me all’epoca, m’impedì di gettarmi ai suoi piedi adorante, invece dissi : “ Prego?”
Detestai immediatamente il tono della mia voce, freddo e gracchiante, come un citofono vecchio, ma lei parve non accorgersi di nulla e, regalandomi il più splendente dei sorrisi, proseguì: “ Ho un problema con il mio PC, mi hanno detto di rivolgermi a te. Hai due minuti da dedicarmi?”.
Le avrei regalato tutta la vita, altro che due minuti!
Da quel primo approccio le cose andarono da sé: Chiara non era solo bellissima, un’intelligenza fuori dal comune, abbinata a una profonda umanità scevra da qualsiasi pregiudizio, facevano di lei una persona  unica. Amarla, per me, era una condizione naturale, come respirare. Il contrario mi stupiva, cioè che lei mi amasse.
Eppure era vero, oltre ogni logica, lei mi amava come nessuno mai; era evidente che non fingeva, che vantaggio ne avrebbe tratto?
Io non sono ricco, non sono bello, non sono neppure così brillante da poter aspirare, un giorno, a una posizione di rilevo sul lavoro. In breve sono un mediocre totale, senza possibilità né volontà di miglioramento.
Ero un tranquillo nessuno finché Chiara non decise di fare di me un uomo speciale, donandomi il suo amore.
“Tu non ti rendi conto di quanto sei meraviglioso, vero?” Mi ripeteva ogni volta che cercavo di schermirmi.
“Non vuoi proprio renderti conto di essere speciale.” Diceva abbracciandomi.
Se le chiedevo cosa trovasse in un tipo come me, rispondeva con gli occhi luccicanti di lacrime trattenute : “ Tu sei buono, dolce, intelligente, sensibile. Diverso dagli altri: tu sei tu”.
Le piaceva intrecciare le sue aristocratiche dita al vello nero e ricciuto che mi ricopre, abbondante, il petto; alternava le carezze a baci leggerissimi o piccoli soffi, che piegavano lievemente la peluria, provocandomi brividi di piacere: “ Che bello!- diceva come parlando a se stessa- adoro la tua “pelliccetta”, mio dolce urside.”
Io, che avevo sempre considerato quell’assurdo manto un terribile difetto, al punto da  vergognarmene, ridevo del suo vezzo e mi burlavo un po’ di lei, per nascondere la tenerezza che rischiava di spezzarmi il cuore.
Quando si trasferì a casa mia, bastò la sua sola presenza a illuminare quelle stanze grigie.
Com’era tipico di lei, non tentò in alcun modo di cambiare la mia casa o le mie abitudini: s’inserì nella mia vita semplicemente, diventandone subito la parte più importante.
 Chiese solo di poter appendere alcune fotografie; ne faceva di splendide, dense di una passione opulenta, sgargianti e luminose, eppure delicate: come lei.
Ora che guardo questi muri spogli, dove solo il segno dei chiodi è rimasto a testimoniare un passato migliore, capisco che, prima di Chiara, ho vissuto in bianco e nero.
Non ricordo come né quando cominciò: improvvisamente ebbi paura di perderla.
Per quanto Chiara fosse sempre la stessa con me e nulla nel suo comportamento desse credito ai miei timori, quel tarlo non cessava di torturarmi la mente con il suo incessante lavorio.
Divenni cupo e sospettoso :” Vuoi lasciarmi, vero?” le chiedevo a bruciapelo, senza alcuna ragione, con un tono tanto provocatorio, da esserne io stesso infastidito. A queste mie uscite lei rideva, mi baciava facendo schioccare le sue labbra sulle mie e rispondeva : “Certo! Non avrai creduto che facessi sul serio con te…”.
La noncuranza delle sue risposte mi urtava, per la prima volta la trovavo altezzosa, stupida, superficiale: come poteva non comprendere i miei sentimenti, le mie paure, i miei dubbi?
Una parte di me vedeva la realtà, non era Chiara ad essere cambiata, ma un’oscura nebbia  soffocava in me ogni ragione, rendendomi cieco e folle, schiavo, mio malgrado, della mia paranoia.
Per quanto mi sforzassi di tornare in me, una forza incontrollabile mi spingeva nel senso opposto; bastava un inezia a scatenare la bestia ringhiante che albergava nel mio petto, pronta ad aggredire.
Contavo le parole e gli sguardi che Chiara mi rivolgeva durante la giornata, se mi sembrava fossero meno di quelli del giorno precedente, la punivo chiudendomi in un ostinato mutismo.
Non attendevo altro che lei mi chiedesse la ragione del mio silenzio, per rimproverarle i suoi torti e colpevolizzarla per il mio malessere. Alle sue ragioni, rispondevo sempre allo stesso modo: “Non ti rendi neppure conto del male che mi fai.” 
Per il bene comune e per amore, la vedevo ogni giorno sforzarsi di dimostrare quanto poco fondate fossero le mie paure, ma questo suo affannarsi diveniva ai miei occhi solo una prova in più del vacillare dei suoi sentimenti.
“Se mi amasse non sentirebbe il bisogno di dimostrarmelo, sarebbe palese…” pensavo, continuando a vivere nel terrore di perderla, mentre facevo di tutto per allontanarla da me.
La situazione precipitò: divenni brusco e cattivo, non le davo tregua, incalzandola con continui, estenuanti interrogatori, criticandola in tutto, dagli abiti al modo di parlare o ridere; arrivai ad insultarla.
Toccai il fondo una notte: dopo una terribile scenata la presi con la forza e con una violenza inaccettabile, le feci male, ma mi giustificai pensando che le sue ferite sarebbero guarite presto, la mia anima tormentata mai.
Chiara, sempre così allegra, si fece silenziosa e triste; perse l’appetito, perfino i suoi capelli fatti di luce, divennero opachi e stopposi. Ora, quando le ricordavo le sue mancanze, piangeva in silenzio e io ne godevo: finalmente anche lei conosceva la sofferenza. Ero riuscito ad uccidere quel suo eterno sorriso. Finalmente, come me, conosceva la paura.
Fu un misero trionfo: senza recriminazioni Chiara lasciò me e
la mia casa.
Non si presentò più neppure al lavoro. La chiamai al telefono per giorni, continuamente, il suo numero era staccato. La cercai da tutte le amiche che conoscevo, mi appostai sotto la casa dei  suoi genitori,sperando di vederla, nulla. Sembrava essersi volatilizzata.
Oggi finalmente, dopo cinque mesi di ricerche, l’investigatore privato che ho ingaggiato per rintracciarla, mi ha portato buone notizie: il suo indirizzo.
 Non vive lontano, ma ha cambiato nome, usa quello della madre; si è tagliata i capelli e li tinge di un castano spento, sembra un po’ invecchiata, un po’ curva.
L’investigatore mi ha dato, con l’indirizzo, anche una fotografia che le ha scattato: è tutto il giorno che la guardo, come già un tempo, non riesco a fare a meno di ammirarla: è un sogno.
Devo trovare il modo di avvicinarla, di parlare. Non pretendo nulla, ho compreso il male che le ho fatto, la mia follia. Non spero che lei mi perdoni e se anche fosse disposta a farlo, io non lo vorrei.
Chiedo solo di espiare, per aver distrutto il  miracolo del suo amore per me; ma voglio che lei sappia che pago:  merita almeno questo.
Sono mesi che progetto come saldare il mio debito, come darle vendetta; ora che l’ho ritrovata tutto diventa possibile.
Mi alzo dal divano, ho le gambe anchilosate, devo essere rimasto seduto per ore nella stessa posizione, la casa è calda ora e il cibo, entrato in circolo, mi regala un po’ di energia.
So con esattezza cosa devo fare, ho ripassato il mio piano centinaia di volte in attesa di metterlo in pratica.
Prendo una busta, una di quelle gialle, imbottite e ci metto dentro le due chiavi che da tempo ho preparato. Scrivo un
Messaggio: cerco di essere breve e convincente, chiedo a Chiara di raggiungermi domenica mattina al gazebo dell’orchestra, nel parco della nostra città. E’ un luogo che conosciamo entrambi, era uno dei “nostri posti”.  Non le chiedo di venire sola se non se la sente, ma la scongiuro di farlo e di portare le chiavi che troverà nella busta, se vorrà.
Se un’ombra della mia amatissima Chiara ancora alberga in quella figuretta, ingobbita e pallida, che la foto mi rimanda, non mancherà all’appuntamento. Non potrà ignorare la mia preghiera disperata.
Finalmente sabato è arrivato. La notte avanza sul mattino, dal cielo scendono fiocchi  leggeri e asciutti che sembrano d’ovatta. La coltre di neve è così spessa che il paesaggio è mutato, quasi fatico a trovare il gazebo. Il parco è deserto a quest’ora; nel silenzio totale lo scricchiolio dei miei passi sulla neve intatta, offende l’orecchio.
Il gazebo è al centro di uno spiazzo circondato da lampioncini di foggia antica che, con la loro luce soffusa, di un giallo opaco, donano all’insieme un’atmosfera da favola.
Scelgo un lampione la cui base, arrivando dal sentiero principale, risulta nascosta dalla struttura del gazebo: l’ideale per me.
Estraggo dal mio zaino le catene e i lucchetti e comincio a spogliarmi: mi tolgo tutto, perfino l’orologio; faccio un mucchio dei miei abiti e li nascondo con cura in un cespuglio,
lontano da ogni tentazione.
Il calore abbandona rapidamente il mio corpo: la neve ghiacciata già mi pizzica la pianta dei piedi, ma sono determinato a portare a termine il mio piano. Ritorno accanto al lampione dove ho lasciato le catene, mi lascio cadere con la
schiena contro il palo e comincio l’opera: tre giri di catena intorno alle caviglie, lucchetto.
Tre giri di catena intorno al collo e al lampione, com’è fredda e pesante! Lucchetto.
Sono immobilizzato: ho le mani libere, ma il collo è bloccato contro il lampione tanto strettamente, che non posso neppure voltare il capo, così le caviglie.
La neve continua a scendere fitta e gelida: si posa sul mio corpo nudo, ogni fiocco è come un ago rovente che si conficca nella carne. Non sono trascorsi che pochi minuti e già il freddo mi sembra intollerabile: i denti battono da soli, i piedi e le mani cominciano a perdere sensibilità.
Provo un senso di perverso piacere in questa lenta agonia che mi sono imposta: il freddo mi prenderà lentamente, penetrando in me, come un veleno sottile, ci vorrà tempo prima che sopravvenga il torpore e ancora di più prima che il sangue, rilasciato tutto il calore, si trasformi in ghiaccio, fermando, per sempre, questo mio cuore dannato.
Spero che Chiara non arrivi troppo presto, non voglio essere salvato, desidero solo che lei mi veda così : nudo, inerme, offerto, violato nel corpo e nello spirito. Come lei, quella notte.
Rivedo, tra la neve che scende lenta, il suo volto: enorme, sfocato, come in una brutta dissolvenza cinematografica.
Aveva paura di me, lo leggevo nei suoi occhi sgranati, che non smettevano di cercare una via di scampo mentre io mi facevo sempre più vicino. Nel tremito delle sue labbra, dalle quali però
non usciva alcun suono.
Dal pallore livido della suo corpo, gelido di terrore, sotto le mia mani crudeli che lo percorrevano senza amore, piene del disprezzo della violenza.
Cosa ti ho fatto, amore mio, cosa! Come ho potuto perdere me
stesso a questo punto!
C’è qualcosa di così profondamente corrotto in me, da far parte della mia stessa natura.
E’ una bestia informe, acefala, una creatura insidiosa e insinuante, che si è celata per anni negli anfratti più reconditi della mia anima, tanto che neppure io ne conoscevo l’esistenza.
Il tuo ingenuo, sincero amore l’ha nutrita, rafforzata, resa impavida, desiderosa di punirti per il solo fatto di esistere ed essere troppo perfetta per essere vera.
Da sempre io ero suo, mi vedevo attraverso i suoi occhi immondi: brutto, stupido, inetto, incapace di suscitare altro che ribrezzo o scherno. Ignaro della vita, trovavo nel suo abbraccio malato l’unica certezza.
Paga del suo dominio incontrastato, essa sopiva in me e con me.
Quando la certezza del tuo amore mi ha reso più forte, più felice e sicuro, sentendo minacciata la sua proprietà, la bestia in me si è destata rabbiosa e, feroce, ha iniziato a scavare le caverne del dubbio, precipitandomi nel baratro della gelosia, nell’inferno dell’incertezza.
La sua voce era la mia che incessante ripeteva l’oscena tiritera: “ Stupido Illuso, ti lascerà...lascerà…lascerà…”
Quella parola detta e ridetta all’infinito, fino a rendermi pazzo, fino a storpiare l’evidenza della realtà, ha mutato le nostre esistenze.
Non nevica più, il freddo si è fatto più intenso:  è una lama blu nel mio petto, mi stronca il respiro, lo rende breve e doloroso.
Tento di piegare le ginocchia, ma le mie gambe non rispondono, sono assurdamente pesanti e quasi non le sento più. Sollevo le mani, le porto davanti agli occhi per guardarle: tremano convulse, rosse con le unghie cianotiche, ma ancora le controllo.
Non ho idea di quanto tempo sia trascorso, di quanto manchi all’alba tarda dell’inverno, ma non è ancora il momento di abbandonarsi al sonno che tanto preme per entrare, la pena è stata troppo breve, troppo lieve.
Vincendo il torpore prendo a massaggiarmi il corpo con tutta la forza che trovo: batto le mani fino a che il sangue riprende un poco il suo circolo, mi dolgono così tanto che non riesco a controllare le lacrime; le sento premere dietro le palpebre gonfie di freddo, ma non possono scorrere, solo mi bruciano gli occhi come se stessi guardando il sole direttamente.
Con i pugni chiusi mi percuoto il petto e le cosce; mi sembra che ogni colpo laceri carne, vene, tendini. Il formicolio che mi pervade è quasi intollerabile, mi sembra che un esercito infinito di insetti famelici mi azzanni la carne, per aprirsi una via d’uscita, ma lo scopo è raggiunto: un impercettibile calore mi rianima un poco.
Il cielo si sta facendo livido, con estenuante lentezza le tenebre cedono al giorno: presto lei verrà.
Mi chiedo se comprenderà il mio gesto, se userà le chiavi che le ho inviato per liberarmi dal mio supplizio e dalla mia colpa. Devo trovare la forza di resistere per chiedere perdono, per dirle un’ultima volta che l’amo oltre me stesso poi, potrò abbandonarmi all’oblio.
E’ luce piena ora. Un sole freddo accende un mondo bianco e immoto. Il gelo ha condensato le mie lacrime in un velo sottile di ghiaccio che mi offusca la vista, scorgo solo vaghe ombre.  Non potrei distinguere un tronco da un lampione, per me non sono che elementi scuri e verticali, ma riconosco l’ombra esile




che avanza lentamente tra la neve. Il mio cuore quasi fermo ha
un balzo inaspettato, mi squarcia il petto come un pugnale: “Grazie Dio, grazie! Lei è qui, è venuta!”.
Mi sforzo di muovermi: vorrei urlare il suo nome, perché mi scorgesse subito e corresse da me, ma dalla mia gola non esce che un debole lamento e il mio corpo è ormai paralizzato, posso solo aspettare.
“Presto, amore mio, vieni presto!” 
Ecco, mi ha visto! Si è bloccata improvvisamente, il corpo rigido, come questo mondo di ghiaccio.
Non posso scorgere la sua espressione, ma immagino i suoi occhi sgranati per la sorpresa, la bocca spalancata in un grido muto mentre la mente concepisce ciò che l’occhio vede.
Corre ora, incespicando nella neve alta e fresca, si avvicina…E’ qui!
Si getta su di me, mi tocca il volto, mi chiama, sento la sua voce lontana e distorta, come se parlasse in un bicchiere.
Colgo solo frammenti di parole : “ Dio mio, p..ché? …enti? P..lami…”
Percepisco appena il calore del suo corpo contro il mio mentre mi abbraccia, il tepore del suo fiato sulle mie labbra; mi sento in paradiso: lei è qui, è venuta da me,  lei mi ama!
Continua a parlarmi, a toccarmi, a piangere nel tentativo inutile di rianimarmi. Vorrei fermarla, dirle che non deve preoccuparsi
per me, che la mia vita non ha importanza, che gliene faccio dono, purché mi perdoni, purché non pensi più a me come a un mostro.
Ogni istante i momenti di luce si fanno più brevi, come i battiti del mio cuore, sento che il momento del passaggio è vicino e ho tanta voglia di abbandonarmi a quel sonno benedetto, per l’ultima volta nell’oblio delle sue braccia.
Improvvisamente avverto un cambiamento, il peso del suo corpo si fa più leggero, dice qualcosa :” vado…aiuto…” .      Vuole lasciarmi…maledetta! Non posso permetterlo.
Una forza nuova, una vampata d’inferno mi riempie, non mi lascerà un’altra volta: le braccia scattano, afferrano, stringono…un urlo, è lei... si divincola, vuole fuggire. Stringo di più..cerco la sua gola e stringo, stringo, stringo.
Non si muove più ora, è ferma e fredda, come la neve.
Non mi lascerà mai più.























giovedì 9 dicembre 2010

Il Kimono - II parte-


L’uscio della casa di Mariko era  avvolto nei contorti rami di un  antico glicine. Gli opulenti grappoli viola pendevano pigramente sull’architrave, lunghi al punto di sfiorare il capo di chi oltrepassava la soglia ; tale  leggero contatto, così come il tocco della  brezza serotina, favoriva  nell’aria circostante lo spandersi di un profumo meravigliosamente delicato e suadente :
“Il profumo dell’amore” pensò Alfonso DaSilva   deponendo le proprie calzature, come gli era stato detto di fare, accanto alle altre già ordinatamente allineate a lato della porta d’ingresso.
Il suo interprete e servitore era stato abile, non erano trascorsi che pochi giorni da quando la bella Mariko aveva suscitato il suo interesse e già  era riuscito ad ottenergli un incontro.
Era pur vero che il piccolo interprete lo aveva informato che, senza l’influenza di Keyco, la concubina dell’Imperatore, nulla avrebbe convinto la geisha ad un incontro con lui, ma di ciò egli poco si curava, da uomo pratico non poneva limiti ai mezzi da adoperare per ottenere il suo fine ed il suo fine in questo momento era avere per sé quella splendida creatura.
“Sono pronto Goro-san – disse rivolto all’interprete – introducimi e poi lasciami solo, non avrò più bisogno di te”
L’uomo s’inchinò profondamente come era solito fare ma, un istante prima di voltarsi e varcare l’uscio, lasciò cadere, casuali come foglie portate dal vento in autunno, queste parole:
“Signore, ricordo ora una preghiera della nostra comune padrona la  divina Keyco…”
“Niente per niente, dovevo immaginarlo” pensò DaSilva  poi rivolto all’uomo:
“Sarà per me un onore servire la nostra signora. Ebbene, cosa desidera in cambio di Mariko?”
“ Il kimono ch’ella indossava il giorno in cui la vedeste a palazzo, ecco ciò che chiede”
Per alcuni istanti DaSilva non parlò, fissava il piccolo uomo davanti a sé  e una strana espressione le aleggiava sul volto poi, come un tuono , la sua risata echeggiò alta nel silenzio di quella sera primaverile
“Quella donna è pazza – disse tra le risa, scordando del tutto il rispetto dovuto ad un personaggio di così alto lignaggio - pretende  l’abito di un’altra femmina  dopo averle estorto, usando il suo potere, favori verso un  perfetto sconosciuto  oltretutto straniero!! No: questa è la mia risposta. Riferirai alla signora Keyco che non posso favorirla in questo modo ma che sarà mio piacere e onore farle dono di qualsiasi altro paludamento le piacerà scegliere.” Detto ciò fu nuovamente colto da un eccesso di risa se pur meno prepotenti delle prime.
Goro lasciò che il suo padrone ritrovasse il fiato prima di parlare:
“ Se la signora Keyco non otterrà ciò che chiede le nostre vite non avranno più valore di quella di una zanzara posata sull’acqua di uno stagno popolato di rane”
Il tono assolutamente piatto ed incolore dell’uomo ebbe il potere di distogliere DaSilva dalle proprie esilaranti considerazioni  e di riportarlo in una assai meno divertente dimensione:
“Che vai dicendo, perché le nostre vite sarebbero in pericolo.Parla e subito, maledetto impiastro o io…”
Goro non chiedeva di meglio che spartire con altri il suo tremendo fardello, dal suo incontro con Keyco, tre giorni prima, non era più riuscito a mangiare né a riposare, il pensiero del terribile macigno che, suo malgrado e senza colpa alcuna, gravava sulla sua testa non lasciava in lui spazio per altro che non fosse paura.
In breve raccontò ogni cosa al suo padrone avendo cura di includere anche lui nei progetti omicidi di Keyco, quando ebbe terminato il suo racconto Da Silva lo fissò intensamente negli occhi, egli sentì un vuoto allo stomaco come dopo  un pugno.
“ Introducimi e poi vattene. Quella maledetta strega avrà ciò che chiede”
Goro s’inchinò senza parlare e, dopo aver  grattato leggermente alla porta, la fece scorrere silenziosamente ed entrò.

Mariko e Yuya, la sua giovane apprendista, avevano spiato l’arrivo dello straniero e ora lo osservavano mentre dialogava nel suo incomprensibile linguaggio con il  servitore: era enorme, l’uomo più grande che entrambe avessero mai visto, la sua altezza superava senz’altro  6 shaku e il suo viso era coperto di lunghi peli color del rame  anche i suoi occhi erano strani, tondi  e pallidi come il cielo all’alba.
Lo sguardo di Yuya si posò sulle mani dell’uomo e un brivido  la percorse come le accadeva quando vedeva una serpe in giardino, quelle non erano mani d’uomo, troppo grandi e nodose, ricoperte di macchioline brune e peli ricciuti : zampe d’animale. Eppure, il pensiero che quelle mani si sarebbero presto posate sul bel corpo bianco della sua protettrice non produsse in lei disgusto ma una strana, sconosciuta sensazione, come un’occlusione alla bocca dello stomaco, non capì perché ma istintivamente strinse forte le gambe.
Mariko era furente, come aveva potuto il divino Imperatore essere tanto stolto e crudele da imporle un simile supplizio, da umiliarla in quel modo dandola in pasto ad una bestia straniera, forse non aveva gradito la sua esibizione , forse l’aveva offeso in qualche modo…No, non poteva accettare una simile sorte, doveva esserci un modo per sfuggire.
Improvvisamente, come un fiore a primavera, la soluzione sbocciò nella sua mente, ma doveva agire immediatamente, prima che lo straniero entrasse, prima che la vedesse troppo da vicino, balzò in piedi con un unico movimento fluido e ordinò a Yuya di fare lo stesso, poi tirando la ragazza per una manica si affrettò nella stanza adiacente e richiuse con cura i sottili pannelli di carta di riso bianchissima dietro di sé.
Non appena fu certa di non poter essere udita dai due uomini ancora in attesa sotto il porticato d’ingresso disse rivolta a Yuya:
“ Sorellina, hai visto quell’uomo? “ La soave, bassa voce della geisha era piena di pianto e disperazione nel pronunciare quelle parole  ma a Yuya non sfuggì la freddezza degli occhi, conosceva tutte le arti di Mariko e in quel momento era l’attrice a parlare, tuttavia rispose:
“ Ho visto, sorella maggiore, incute paura a solo guardarlo”
“ E’ così infatti ed io non oso immaginare cosa potrebbe fare di me se mi concedessi a lui, potrei morire o peggio essere sfigurata, potrebbe mordermi le carni, hai notato come sono aguzzi i suoi denti?”
La giovane si domandò come e quando Mariko avesse potuto scorgere i denti dell’uomo in mezzo alla selva disordinata che gli ricopriva il volto e nei pochi istanti che avevano avuto per osservarlo, ma non fece domande poiché aveva già pagato, in passato, le spese della sua troppo viva curiosità.
Si limitò ad annuire e questo diede modo alla geisha di continuare:
“ Povera me, come posso ubbidire il mio Signore e allo stesso tempo salvare la mia vita..”
Yuya conosceva la sua parte, era giunto il momento di offrire aiuto senza che la sua padrona  dovesse chiederlo direttamente:
“ Sorella maggiore, se posso in qualche modo alleviare le tue pene, disponi pure di me”
La voce della donna rimase soave e bassa ma non  vi era più traccia di pianto quando disse:
“ Sì, puoi”

Alfonso DaSilva fu introdotto in una piccola sala  triangolare: due  delle pareti erano prive di  sbocchi e si univano al vertice formando uno stretto angolo  l’unica via di entrata o uscita era l’ampio scorrevole rivestito di  carta  di riso posto sulla parete più lunga .
 Pareti e Pavimento erano in legno piallato e tirato a cera fino ad ottenere dalle fibre delicate sfumature  tabacco; come d’uso in tutte le case di quel paese non vi erano mobili ad ingombrare gli spazi, solo un basso tavolo posato su  un ampio tatami troneggiava al centro della stanza.
L’illuminazione era fornita  da  alcune lanterne di delicatissima fattura che pendevano dal basso soffitto e  donavano all’ambiente una morbida luce vagamente rosata.
L’anziana donna  che l’aveva accompagnato gli fece cenno di sedere dietro al tavolo in posizione tale da essere rivolto con il viso verso lo scorrevole, quando fu certa che DaSilva avesse inteso bene lasciò la stanza camminando all’indietro con il mento appoggiato al petto e gli occhi bassi che sollevò solo un istante mentre richiudeva dietro di sé lo scorrevole  per lanciare un’ultima curiosa occhiata al singolare ospite.
La sua solitudine fu di breve durata, pochi minuti dopo essere stato lasciato dalla  fantesca la porta si  riaprì e una figura minuta si stagliò, controluce, nel riquadro della porta.
Nel delicato profilo del corpo DaSilva fu certo di riconoscere Mariko e subito avvertì una sensazione di calore diffondersi  dal ventre in tutto il suo corpo ma non appena la donna avanzò qualche passo nella sua direzione, uscendo dal gioco dei chiaroscuri, egli vide l’evidenza del suo errore; la ragazza che aveva davanti, per quanto giovane e graziosa non era minimamente paragonabile a colei che aveva risvegliato il suo desiderio.
La donna  portava un piccolo vassoio sul quale erano posati una bottiglia e una minuscola coppa entrambi di ceramica, si avvicinò al tavolo e, inginocchiandosi alla destra dell’ospite posò il vassoio davanti a lui, poi gli sorrise lievemente a labbra chiuse e senza mostrare gli occhi  mentre con gesti calmi e misurati mesceva il liquido trasparente come acqua nella  coppa e la porgeva con entrambe le  mani , DaSilva aveva già provato la bevanda che gli veniva offerta, sapeva che i locali la estraevano dal riso fermentato e la chiamavano nihonshu , era simile all’acquavite per gradazione ed effetti e lui non aveva mai disdegnato l’acquavite quindi prese ciò che con tanto garbo gli veniva offerto e, senza esitazione, ne ingoiò il contenuto.
Il liquido tiepido e fortissimo gli indusse una smorfia ma poi lasciò sulla sua lingua un gradevole sapore dolciastro; restituì la coppa alla ragazza facendo cenno di gradirne ancora e nel fare ciò domandò:
“ Mariko-san?”
La giovane inclinò il capo leggermente per dar segno di aver udito ma dalle sue labbra non uscì suono alcuno, si limitò a versare altro nihonshu e a porgerlo garbatamente.
Alfonso Da Silva accompagnò la seconda coppa con un grugnito d’impazienza.

Yuya aveva preparato ogni cosa e sé stessa come le era stato ordinato dalla sua maestra e padrona, ora la stanza adiacente a quella dove l’ospite straniero era stato introdotto  si era trasformata  in un palcoscenico: una tinozza di rame, tanto ampia da poter ospitare 2 o più persone per il bagno era stata trasportata al centro della stanza;  tre bracieri, solitamente usati solo nella stagione fredda, erano disposti dietro alla vasca  ad un ordine di Mariko dovevano essere accesi  in modo tale che da essi si sprigionassero alte fiamme atte a fruire da illuminazione.
Lo sgabello sul quale Mariko era solita sedersi per farsi acconciare era stato posto accanto alla  tinozza, un tatami nuovissimo dalle delicate tinte pastello  era discretamente  steso in un angolo un po’ discosto, ovunque sul pavimento erano stati posati  piccoli lumi per il momento ancora spenti.
Yuya, dismesso il suo kimono di cotone azzurro, aveva indossato l’ampia tunica di seta bianca che Mariko le aveva dato, un indumento leggero come l’ala di una farfalla e, come tale, velatamente trasparente aperto sulla parte anteriore per tutta la sua lunghezza e sorretto solo da un laccio posto all’altezza della vita.
Ad ogni passo della ragazza, ad ogni suo movimento, il leggero tessuto della tunica ondeggiava e si spostava rivelando  una spalla , uno  scorcio del piccolo seno o parte delle gambe snelle.
Yuya, sentendosi vivamente imbarazzata aveva chiesto di poter indossare un altro indumento ma il rifiuto della padrona era stato categorico:
“Indosserai ciò che ti ho ordinato, senza fare storie – Aveva sentenziato Mariko –  E non dimenticare di sciogliere i capelli”
Così anche i capelli erano stati sciolti e ora ricadevano, serici e lunghissimi, fino a sfiorare le ginocchia di Yuya.
Mariko non aveva spiegato a Yuya né lo scopo né il fine di tutti quei preparativi e ciò causava nella giovane una vaga inquietudine, conosceva la natura gretta ed egoista della sua padrona e sapeva che, per il proprio benessere e tornaconto avrebbe sacrificato chiunque, eccetto se stessa.
Le due cameriere entrarono portando ognuna sulle spalle un bilanciere alle estremità del quale era appeso un secchio di acqua bollente che rovesciarono nella tinozza in rame, questo andirivieni distolse Yuya dai propri pensieri e la ragazza si affrettò a cospargere petali di fiori essiccati sulla superficie dell’acqua da bagno, in quell’istante entrò Mariko scortata da due vecchissime donne recanti alcuni strumenti musicali le quali, ad un cenno della geisha, andarono ad accovacciarsi  in un angolo ben nascoste dietro un paravento.
“L’onorevole ospite ama la musica, queste due vecchie sorelle ci regaleranno la loro arte questa sera” disse Marko  rivolta a Yuya, poi domandò: “ E’ tutto come ho chiesto?”
La giovane praticante s’inchinò annuendo.
“ Allora che si accendano i bracieri e tutti i lumi, il tempo è venuto” detto ciò lasciò la stanza accennando a Yuya di seguirla

Sebbene la bottiglia di nihonshu fosse ancora piena a metà DaSilva cominciava già ad avvertire uno strano stordimento accompagnato da un lieve torpore delle membra, inusuale per lui  avvezzo ad  ogni genere d’intruglio così, all’ennesima coppa offertagli oppose un secco rifiuto mostrando alla  mescitrice il palmo della mano con tutte le dita ben serrate, la donna intese, posò la  coppa sul tavolo, si alzò e, dopo l’immancabile inchino andò ad inginocchiarsi, un po’ discosta da lui, alle sue spalle.
Una lampo d’intenso arancio  avvampò improvviso dietro la porta scorrevole dalla quale era entrato; Da Silva impiegò qualche istante a realizzare che non si trattava di un principio d’incendio ma  di fuochi volutamente appiccati , superata la sorpresa vide delinearsi  sulla carta di riso bianca che rivestiva la porta,  le sagome nette di alcuni oggetti  e, subito dopo , accompagnate da una musica dolce come l’eco dell’onda, due figure femminili.
Entrambe le sagome erano pressappoco della stessa statura, entrambe molto esili; avrebbero  potuto essere la stessa persona ma una si distingueva per l’alta acconciatura e il grande obi  la cui sagoma spiccava netta nei contorni scuri.
La scena catturò immediatamente  l’attenzione di Da Silva  che, capendo immediatamente che si trattava di una spettacolo allestito a suo uso, si apprestò a goderselo ordinando, con un gesto della mano alla sua mescitrice di tornare accanto a lui e riprendere il lavoro interrotto in precedenza.
Dall’altra parte dello scorrevole Mariko e Yuya si muovevano con lentezza ed enfatizzando i gesti per rendere la visione delle ombre il più nitida possibile allo spettatore.
“ Ora  andremo allo sgabello – bisbigliò appena Mariko rivolta a Yuya – io mi siederò e tu comincerai a sciogliermi i capelli e a pettinarli, come fai ogni sera ma molto, molto lentamente.
Hai capito?”
“ Ho capito, sorella maggiore”

La misteriosa ombra con  l’alta acconciatura si sedette sullo sgabello offrendo il profilo, la sagoma che la seguiva le si avvicinò da tergo e con gesti lenti, misurati ed esperti cominciò a far ricadere lunghe ciocche di capelli che  adagiava poi, con grazia , sulle spalle  della donna seduta; quando tutta la chioma fu libera e sciolta  un grosso pettine venne passato a lungo tra i capelli, la donna che veniva pettinata si arcuava leggermente all’indietro seguendo con il corpo i movimenti  ritmici dell’altra, Da Silva  potè osservare  il collo della donna  lungo e flessuoso, elegante come quello di un candido cigno e  le sue labbra leggermente dischiuse come ad accogliere un bacio.
Quando la figura si levò improvvisa portando le braccia tese in alto sopra il capo anche la musica mutò divenendo ritmica ed incessante come il palpito di un cuore in affanno.
L’aiutante ombra prese in mano un capo dell’obi, l’ampia cintura che cingeva la vita della donna
 nelle cui movenze DaSilva aveva ormai riconosciuto Mariko, e cominciò a tirarla piano verso di se’ripiegandola mano a mano che la stoffa, svolgendosi, arrivava tra le sue mani.
Mariko, sempre con le braccia sollevate sul capo girava su sé stessa liberandosi dalla prigionia dell’indumento.
Quando l’obi fu tolto completamente  l’inserviente si avvicinò, pose le mani sulle spalle della geisha e lentamente fece scivolare a terra  anche il kimono, inaspettatamente Mariko, con lo stesso gesto fece cadere a terra la bianca tunica  indossata da Yuya: colta di sorpresa da quel gesto la ragazza  stava portando istintivamente le mani al seno e al pube nel vano tentativo coprirsi ma la padrona  la bloccò:
“Ferma, non ti muovere guardami negli occhi  e  fai a me quello che io farò a te”
Ora le due sagome erano immobili fronteggiandosi , dall’altra parte della cortina  l’uomo poteva vedere i profili stilizzati delle loro nudità: i seni piccoli ed eretti, i ventri leggermente convessi, le curve dolci delle natiche appena profilate sotto il manto dei capelli,  gli arti eleganti
Erano entrambe splendide . Tracannando d’un fiato altro liquore, DaSilva cercò di calmare l’eccitazione che lo stava invadendo.


Nella mano di Mariko si materializzò un vasetto di ceramica bianca e azzurra  e in quel momento,
come per un segnale convenuto, la donna che fungeva da assistente all’ospite si alzò e, recatasi alla
porta l’aprì.
Come in un sogno, la scena apparve improvvisa in tutto il suo studiato splendore:
I bracieri  ardenti sullo sfondo, l’ampio catino di rame lucido, sfavillante nel riflesso delle fiamme,
le due splendide creature completamente nude, immobili nella loro statuaria perfezione, la pelle eburnea , perfetta nella sua compattezza cremosa, le chiome corvine, lisce e lunghissime quale unico inadeguato indumento.
Istintivamente DaSilva  si sporse in avanti quasi a volersi sollevare  ma la sua mescitrice lo toccò leggermente sulla spalla e, con un gesto del capo lo invitò a guardare, un altro nihonshu gli scivolò in gola.
La prima ad infrangere la staticità del quadro fu Mariko, immerse le quattro dita della mano destra nel vasetto di ceramica le ritirò ricoperte di una pomata bianca e densa delicatamente profumata, sfregando insieme i palmi la distribuì su entrambe le mani poi, lentamente girò intorno a Yuya, ancora paralizzata dall’imbarazzo e dalla sorpresa, e si portò alle sue spalle, avvicinandosi tanto che i suoi seni premettero contro la schiena dell’altra poi, delicatamente, le sollevò entrambe le braccia  a croce e la fece voltare in modo da offrire la parte anteriore del corpo alla piena vista  dell’uomo quindi le  bisbigliò all’ orecchio di restare in quella posizione  finchè lei non le avesse ordinato diversamente.
Con le mani luccicanti di crema circondò il collo della giovane donna e lo massaggiò lentamente proseguendo poi lungo le braccia tese accarezzandole con movimenti sinuosi ed eleganti, raggiunte le mani dell’altra ripercorse con le medesime studiate carezze la parte inferiore della braccia fino a tornare al punto iniziale.
Dalla sua posizione frontale DaSilva poteva godere pienamente solo della vista  della ragazza mentre di Mariko non vedeva che le braccia sottili ebbe così la straordinaria sensazione che, una  divinità multi braccia avesse abbandonato il suo trono di pietra per materializzarsi davanti ai suoi occhi.
Ora le mani di Mariko, abbandonate le braccia, scendevano con ostentata lentezza lungo i fianchi di Yuya accarezzandoli con insistenza  portandosi, impudiche, per un solo istante a coprire il monte di Venere della giovane per abbandonarlo subito dopo.
Le mani sottili risalirono con estenuante lentezza verso i seni turgidi di Yuya accarezzando, ora leggere, ora più decise la nivea pelle del ventre  giunsero poi alla loro ultima meta posandosi a coppa una su ognuno dei  piccoli monti, si riempirono della loro morbida consistenza, li strinsero
ritmicamente  poi le dita sapienti presero a tormentare dolcemente i rosei capezzoli finché questi non mutarono di forma, colore e consistenza . Yuya avvertì una sensazione di calore scendere dal ventre fin nei recessi più nascosti del suo corpo e qui mutarsi in un fiotto liquido che la invase colando come caldo miele tra le sue cosce serrate
“Basta “ disse ansimando rivolta a Mariko che non smetteva di stringere, tirare e accarezzare ma quest’ultima la esortò ancora una volta a tacere poi  staccò le mani dal petto della ragazza , si portò al suo fianco e le fece compiere mezzo giro su se stessa permettendole di abbassare finalmente le braccia.
Le due donne si trovarono così  occhi negli occhi : pozzi neri, accesi di brace, quelli di Mariko, liquidi e smarriti come di cerbiatta in fuga quelli di Yuya.
“Toccami come ho fatto io”
“No…”
La mano destra di Mariko, quella che la visione laterale nascondeva alla vista dell’ospite, risalì rapida il braccio della ragazza e le unghie lo penetrarono con tanta forza da lacerare la pelle sottile
Yuya fece una smorfia e trattenne un lamento
“Fallo, ora o te ne pentirai presto” disse Mariko
Yuya portò le mani incerte al collo della sua maestra e, con gesti titubanti e incerti prese ad accarezzarla come ella aveva fatto con lei.

Da Silva non aveva mai provato in vita sua un’eccitazione più forte, un desiderio più irrefrenabile, guardare quelle due giovani donne nude accarezzarsi intimamente davanti a lui lo faceva impazzire:
 il suo membro  premeva sotto gli abiti,   il rombo del suo sangue gli martellava  nelle orecchie, il cuore gli scoppiava in petto e una voglia animale di possesso si era ormai impadronita di lui.
La giovane donna inginocchiata accanto a lui per servigli da bere era stata istruita a dovere e, notando il rossore sul volto dell’uomo e il suo continuo cambiare posizione capì che era giunto il momento di eseguire gli ordini ricevuti: camminando sulle ginocchia gli si portò alle  spalle e prese a slacciare i complicati ganci che chiudeva la giubba , questi parve  non rendersi conto della cosa e non oppose alcuna resistenza, dopo la giubba le mani leggere lo aiutarono a sfilarsi la  camicia così che rimase a torso nudo, la donna lo invitò  ad alzarsi e, quando fu in posizione eretta,  ella  percorse il  suo petto con lievi carezze fino a trovare il laccio degli ampi pantaloni che presto si arricciarono attorno alle sue caviglie.
Ora il grande corpo di Da Silva non era cinto che di una fascia bianca drappeggiata intorno ai fianchi; così abbigliato venne condotto, traballante a causa del liquore ingurgitato, verso il punto dove si trovavano Mariko e Yuya.
Vedendolo appressarsi Mariko si avvicinò ancora di più alla sua allieva, le passò una mano dietro la nuca e l’attirò a sé con forza fino a che loro corpi non aderirono poi premette la bocca umida e dischiusa su quella di Yuya in un avido bacio, quando si staccò da lei Yuya la guardò attonita e in quell’attimo, le due bocche ancora vicinissime, Mariko disse:
“ L’uomo viene. Ora lo porteremo con noi nella vasca  per intrattenerlo “
Prima che l’altra potesse replicare Mariko la baciò ancora poi, prendendola per mano la condusse  incontro all’ospite aggiungendo . “ Fa come me e impara”
Yuya, la mano serrata da quella di Mariko, il corpo in preda a sensazioni mai provate  in bilico tra timore e curiosità, si avviò in silenzio  verso lo sconosciuto che divorava con occhi accesi  la sua padrona e lei.
Mariko si muoveva sicura  con quel suo passo lievemente ondeggiante, il seno ben proteso offerto alla vista come un trofeo, gli occhi alti, pieni di promesse fissi in quelli dell’uomo.
Quando il trio fu così vicino che il solo allungare un braccio avrebbe consentito ad ognuno di loro di sfiorare l’altro Mariko  lasciò la mano di Yuya  fece un altro passo e fu così vicino a DaSilva da percepirne l’odore lievemente acre di sudore e nihonshu , ne fu disgustata ma sorrise invitante, si inginocchiò davanti all’uomo e, senza togliere gli occhi da quelli di lui gli liberò i fianchi dalla fascia.
Caduto quell’ultima barriera la virilità eccitata apparve alle due donne nella sua pienezza.
Da Silva non era  il primo uomo che varcava la soglia della casa di Mariko e questa era avvezza alla vista  dei loro corpi eccitati, desiderosi di saziarsi in lei ma non aveva mai visto un membro di quelle dimensioni , la vista la turbò ciò nonostante si afferrò con ambo le mani ai fianchi dell’uomo e, rialzandosi fece studiatamente scorrere la fronte e poi le labbra semiaperte sul suo pene  in una lievissima e fugace carezza che fece fremere Da Silva che tentò di trattenerla ponendole una delle sue grosse mani sul capo, ma la donna si levò rapida e gli fu ancora davanti con il viso proteso verso il suo.
Con un cenno fece avvicinare Yuya , ora Da Silva le aveva entrambe di fronte a sé, i  corpi emanavano un lieve calore e un profumo dolce misto della pomata che avevano usato per accarezzarsi a vicenda e degli umori femminili stimolati da quella pratica, le accarezzò entrambe sulle guance poi portò i pollici sulle loro labbra e le forzò a schiudersi, Mariko fu pronta ad accogliere l’intrusione  e subito il grosso dito dell’uomo sparì nella sua bocca calda e lei prese a succhiarlo con studiata voluttà; Yuya oppose una leggera resistenza  poi, vedendo come la sua padrona agiva e, ricordando le parole di quest’ultima, la imitò.
Mentre il grosso dito dell’uomo riempiva la sua bocca esplorandola Yuya  avvertì la mano di Mariko prendere la sua e portarla al membro turgido, non appena avvertito il contatto la giovane tentò di ritirarla ma la padrona non lo permise e le impresse con la sua un movimento rotatorio al quale l’uomo oggetto di tale pratica rispose con bassi mugugni di intenso piacere.
Eccoli ora, ritti in mezzo alla stanza, uniti con mani e bocche in un unico mitologico essere: tre teste, tre dorsi, 6 gambe, intrecciati in una massa di carne fremente stillante umori ed odori.

Fu Da Silva a spezzare il cerchio magico, non tollerando più a lungo quello stato di attesa ed eccitazione tolse le dita dalle bocche delle due donne e, circondandole alla vita con le braccia le attirò a sé con forza poi prese a baciarle con frenesia sul volto cercando ora la bocca dell’una, ora quella dell’altra, insinuando la lingua, vorace nelle loro umide cavità, senza controllo, senza più ritegno; il tempo dei giochi era finito, le voleva e le voleva entrambe; desiderava  affondare dentro di loro con forza,  sentire i loro corpi  scossi dai suoi colpi  fremere e sussultare con lui, ascoltare i loro sospiri, assaporare il loro piacere, godere di loro fino allo sfinimento.
Si lasciò cadere a terra e il peso del suo corpo trascinò con sé le due donne che si ritrovarono in qualche modo avvinghiate a lui, incapaci di liberarsi da quel corpo pesante che le premeva a terra
Yuya percepì il cambiamento nell’uomo ed ebbe paura :
“Padrona, che accade?”
Mariko aveva a sua volta capito che non era più possibile fermarlo, ormai la volontà di quell’uomo era stata annullata dalla voce dell’istinto, aveva visto altri uomini così, resistergli non sarebbe servito che a eccitarlo di più, doveva in qualche modo preservare sé stessa, non poteva permettere a quella bestia straniera di violarla, se poi si fosse risaputo che era stata posseduta da quell’essere immondo nessuno più l’avrebbe voluta. La sua voce aveva un tono dolce e rassicurante mentre diceva a Yuya : “ Non temere, egli non vuole nulla di diverso da quello che tutti gli uomini vogliono. Tu asseconda i suoi desideri tutto finirà presto”
Nella confusione di gambe, braccia, labbra e lingue che seguì Da Silva non si rese conto che Mariko era riuscita a liberarsi dal suo abbraccio ora, stretta a lui restava solo la giovane ragazza della quale non conosceva neppure il nome, solo in un istante mentre con una mano le stringeva il seno, mentre la sua lingua affondava nella bocca di lei e l’altra mano forzava le sue gambe ad aprire un varco verso la sua più intima cavità,  si rese conto di non essere venuto per lei ma subito l’onda dei sensi lo travolse ancora, il contatto con quel corpo morbido e caldo gli offuscò ogni pensiero coerente, avvertì l’umido calore tra le cosce della ragazza e in un estremo attimo di desiderio si sollevò sui fianchi , con la mano guidò il suo membro e, riabbassandosi con forza penetrò quel corpo accogliente.
Un  lamento lo accolse nella calda, avvolgente intimità  di lei  ma i suoi sensi offuscati dall’alcol e dall’eccitazione  non colsero la sofferenza della ragazza che ora tentava in tutti i modi di liberarsi da quel corpo che la schiacciava sotto di sé fino a toglierle il respiro, da quei colpi ritmici e pesanti che la  dilaniavano impietosi; sordo alle sue preghiere, alle sue lacrime, insensibile al martellare dei suoi deboli pugni sulla  schiena l’uomo continuò a muoversi dentro di lei  per un tempo che le parve eterno poi, improvvisamente, si bloccò, sollevò la testa la bocca aperta in muto grido,  la schiena inarcata le braccia tese, a far leva, appoggiate  al pavimento, un ultimo spasmo e Yuya lo sentì crollare su di sé molle e pesante come se improvvisamente non avesse più ossa .

“E’ finita – fu il suo primo pensiero coerente- sono viva”
Il corpo dell’uomo pesante e sudato, la immobilizzava ancora rendendole difficile la respirazione e il suo respiro nell’orecchio era il rantolo insopportabile di un ubriaco ma almeno quel martellare doloroso era cessato, sentiva ora un dolore bruciante là dove il membro dello straniero l’aveva percorsa  incessante ma era finita.
Lentamente e faticosamente si spostò di lato fino a che non riuscì a liberarsi, si sollevò lentamente aiutandosi  con le braccia, poi istintivamente portò una mano  in mezzo alle gambe e si toccò, sebbene si fosse appena sfiorata un dolore acuto le fece saltare le lacrime agli occhi, trasse la mano e la guardò era lorda di sangue e di un altro liquido biancastro e vischioso che non riconobbe.
Mentre ancora osservava la sua mano una voce la sorprese:
“ Il sangue è quello della tua verginità, sei una donna ora; l’altro è il suo seme se sarai fortunata non attecchirà” La voce di Mariko aveva lo stesso tono piatto ed indifferente di quando ordinava alle sue cameriere di andare al mercato.
Yuya ruotò la testa in direzione del voce e la vide: Mariko  aveva indossato il suo kimono, quello stesso splendido indumento donatale dall’Imperatore e ora stava seduta la schiena eretta e le ginocchia strette sul basso sgabello delle acconciature e osservava Yuya  con occhi freddi e aria distaccata.
“Padrona, perché hai permesso che la bestia straniera mi facesse questo ?” disse Yuya mentre lacrime ormai senza singhiozzi le inondavano copiose le guance pallidissime
“ Perché, mi domandi. Sei stata tu ad offrirmi il tuo aiuto, ricordi?”
“ Io non sapevo…” mormorò la ragazza, la geisha non le diede modo di termina re la frase, le sue grida la investirono con inaspettata violenza:
“TU NON SAPEVI? Che intendi dire, che se avessi  saputo quello che sarebbe accaduto ti saresti rifiutata? Lurida ingrata  non mi devi quindi nulla?  Io ho pagato per te a tuo padre in pezzi d’argento e tu sei mia, capisci  bene ciò che dico? SEI UNA COSA MIA .
La tua volontà non conta, tu vivi per servirmi in ogni cosa io desideri e se io ora ti cacciassi da questa casa per esserti data come una cagna randagia ad un lercio straniero NESSUNO potrebbe impedirmelo o biasimarmi e sarei nel mio pieno diritto, quindi rifletti bene su ciò che dici e su ciò che ti conviene”
S’interruppe un istante, paonazza in volto, riprese fiato prima di aggiungere piena di cattiveria:
“ Ora, se hai finito di intrattenerti con il tuo amante, lavati e poi vieni qui e acconciami i capelli, il barone Masahide desidera musica al suo banchetto questa sera.
Tu non mi scorterai, non potrei permettere ad una sgualdrina della tua specie di sedere nella stessa stanza con un illustre personaggio come il barone”
Yuya non replicò, si rialzò e barcollando, la vista offuscata dalle lacrime raggiunse la tinozza da bagno; l’acqua era ormai gelata ma ella vi si immerse con gratitudine e prese a sfregarsi con forza i genitali come se quel gesto potesse cancellare il ricordo bruciante della violenza subita.

Per tutto il tempo che Yuya aveva impiegato a lavarsi  Mariko era rimasta immobile seduta, lo sguardo fisso davanti a sé, le labbra serrate in una linea sottile e crudele, una dea di fredda pietra, bellissima e crudele.
Yuya, uscita dal bagno aveva infilato la tunica bianca datagli da Mariko in precedenza e ora, portatasi alle spalle della donna si apprestò al suo compito; iniziò a pettinare i lunghi capelli neri, folti e lucidi, poi li divise in tre grandi ciocche, prese altrettanti nastri e cominciò ad intrecciarli con le chiome, la voce della sua padrona la colse di sorpresa.
“ Sei brava Yuya. Ti ho osservato mentre ti davi allo straniero, hai goduto ogni istante, avresti un grande futuro in una delle “Case delle donne”.
Fu un attimo.
Un urlo da bestia ferita squarciò l’aria e rimbombò sulle pareti della stanza, Yuya, la bocca schiumante, gli occhi iniettati di sangue  tirò con forza la lunga ciocca di capelli che teneva nelle mani, la passo intorno al collo della padrona e tirò, tirò, tirò... Smise solo quando i movimenti convulsi di Mariko cessarono, quando il corpo di lei, ormai senza vita si accasciò sul pavimento, allora mollò la presa e restò immobile, le braccia abbandonate lungo i fianchi, gli occhi sbarrati, vuoti fissi sul corpo senza vita ai suoi piedi.
Il tempo stagnava nella stanza come una densa nebbia, il silenzio era profondo come il respiro dell’uomo ubriaco e addormentato sul pavimento a poca distanza da lei, Yuya si mosse come in sogno, guidata da una volontà superiore si chinò su Mariko e la spogliò dello splendido kimono abbandonando poi il corpo scomposto e seminudo così che nella morte non trovasse onore,  rivestì quindi sé stessa dell’indumento, raccolse i capelli in un bel nodo sulla sommità del capo poi si guardò intorno nella stanza alla ricerca di uno strumento che facesse al caso suo, accanto ad uno dei bracieri vide un attizzatoio annerito lo prese, tornò presso il cadavere della geisha e lo depredò dei larghi nastri per i capelli poi si avvio verso il tatami; prima di inginocchiarsi si legò strettamente le ginocchia con uno dei nastri e passò l’altro sotto il mento allacciandolo poi alla sommità del capo
così sarebbe stata composta anche nella morte e avrebbe ritrovato il suo onore.
Inginocchiatasi  puntò l’attizzatoio all’altezza dello sterno tenendolo  ben saldo con entrambe le mani poi, senza un lamento si gettò sul ferro, restò così inginocchiata, come in preghiera finché la colse l’ultimo respiro.

Il ritmico battere della pioggia sul tetto lo destò, quanto tempo era rimasto incosciente?
Vaghi ricordi ritornavano ora a sprazzi ora nitidi e tutti erano accompagnati dal rigurgito acido del
troppo vino di riso ingurgitato “Maledetti Bacco e Venere” pensò, poi un ghigno di soddisfazione gli deformò per un attimo i lineamenti e riprese a mezza voce “ O benedetti”.
Nella fioca luce si guardò intorno alla ricerca dei suoi abiti, solo il diavolo sapeva dove potessero essere, infine li individuò e li indosso alla meglio.
A parte il dolore atroce che gli spaccava la testa si sentiva soddisfatto mentre si avviava a guadagnare l’uscita ma all’improvviso il suo piede urtò qualcosa dalla strana consistenza, istintivamente guardò a terra e ciò che vide lo riempì d’orrore: una donna giaceva a terra, nuda, gli arti scomposti, una lunga banda di capelli neri attorti al collo, bocca e occhi spalancati in un ultimo grido muto, Da Silva impiegò qualche istante per riconoscere in quei miseri resti quella che era stata la superba Mariko.
Sconvolto dalla visione esplorò con lo sguardo l’ambiente circostante, tutto era immerso in una profonda penombra spezzata appena dalle luce delle poche braci che ancora ardevano nei bracieri, finalmente  vide in un angolo della stanza una figura umana accovacciata come in preghiera si mosse rapido per raggiungerla ma quando fu accanto alla sagoma la crudezza della visione gli fece credere di vivere un incubo: inginocchiata, con la fronte a toccare terra, le ginocchia legate strettamente tra loro e un lungo ferro che le trapassava il corpo uscendo tra le scapole c’era il cadavere di un’altra donna; DaSilva si chinò per scrutarne il volto e subito riconobbe la giovanissima fanciulla che aveva giaciuto con lui e della quale non conosceva neppure il nome.
“Che Dio abbia pietà di noi – pensò- che sta succedendo qui?”
Per quando cercasse una logica tutta la macabra scena gli appariva inspiegabile, che era accaduto mentre lui dormiva vittima dell’alcol e degli eccessi?
Istintivamente si rese conto di dover uscire da quella casa immediatamente per proteggere la sua stessa incolumità, si rizzò in piedi e fece per avviarsi ma ancora una volta lo sguardo fu catturato dalla pietosa immagine del corpo di Yuya,  contorto negli ultimi spasimi della morte, in quell’istante notò che la ragazza indossava il sontuoso kimono che era stato di Mariko e che lui avrebbe dovuto ottenere da quest’ultima e potare alla concubina dell’Imperatore, ricordò improvvisamente quali sarebbero state le conseguenze se avesse fallito la sua missione e non ebbe più esitazioni inginocchiatosi accanto al corpo senza vita di Yuya prese a depredarlo del prezioso abito.
Quando ebbe terminato il macabro rito vide che, dove il ferro era penetrato vi era una lacerazione  e il sangue aveva irrimediabilmente macchiato il prezioso tessuto “Non è affar mio- pensò- Keyco dovrà accontentarsi”.
Abbandonando il corpo nudo e martoriato di Yuya riverso nella pozza del proprio sangue lasciò per sempre quella casa con il suo prezioso carico arrotolato sotto il braccio.

Il giorno seguente DaSilva fu prelevato dalle camere che occupava nel palazzo imperiale e formalmente accusato dell’omicidio della geisha Mariko e dell’allieva di lei, Yuya nonché del furto del preziosissimo kimono dono dello stesso imperatore.
A nulla valse la  disperata difesa dell’uomo, molti testimoni lo avevano visto entrare nella casa e il mattino successivo alla sua dipartita le due donne erano state trovate uccise e derubate inoltre lo straniero si era rifiutato di riconsegnare il kimono sottratto narrando che la notte stessa l’indumento  era misteriosamente sparito e al suo posto egli aveva trovato un lungo nastro rosso con una misteriosa iscrizione che  egli aveva provveduto a dare alle fiamme.
Neppure la tortura servì a fargli rivelare il nascondiglio del kimono; dopo lunghe ore di supplizi inenarrabili egli confessò i delitti e il furto ed  indicò diversi luoghi dove  si sarebbe trovato l’oggetto ma, ispezionati questi, nulla venne trovato.
 La condanna fu esemplare prima di decapitarlo gli furono cavati gli occhi e mozzata lingua e mani poi le sue membra furono abbandonate , pasto per gli animali selvatici.
Il prezioso kimono non venne mai più ritrovato.

Lo destò il ticchettio insistente della pioggia.
Si sentiva stordito e stanco il lungo sonno, tormentato da strane e confuse visioni, non l’aveva ristorato.
Con notevole sforzo si mise a sedere sulla sponda del letto e prese a  ruotare lentamente il collo nel tentativo di ridurne un poco la tensione nel compiere tale movimento il ripiano sul quale aveva posato il suo prezioso involto entrò nel suo campo visivo per un attimo, vuoto.
Improvvisamente sveglio raggiunse con un balzo  il mobile per verificare meglio, non si era sbagliato, il pacco non era più lì, preso da improvvisa frenesia si diede ad aprire ed ispezionare tutti i  luoghi possibili senza risultato.
 Era stato derubato non vi era altra spiegazione.
Si lasciò andare  sul letto e in quell’istante vide sul pavimento una sottile striscia di raso rosso, lo raccolse e lo esaminò, portava una minuscola indecifrabile iscrizione ricamata in bianco.
Senza attendere ulteriormente uscì dalla stanza e si recò alla reception dell’hotel; non aveva idea di che ore fossero ma l’aria insonnolita e seccata dell’addetto quando, mostrandogli il nastro, gli chiese di tradurre l’iscrizione lo convinse che  doveva essere ormai notte inoltrata.
L’uomo dietro al bancone osservò la striscia per circa un minuto rivoltandola tra le mani con aria perplessa poi disse:
“Mi dispiace, è scritto nella nostra lingua ma non riconosco molti dei caratteri, forse si tratta di una
iscrizione arcaica, decifro chiaramente solo un nome : Mariko.