venerdì 26 novembre 2010

Su la guardia!


Oggi la vita,
d'ogni umana illusione
nemica,
maestra dotta e perfetta
con la sua bella bacchetta
m'ha percosso
le dita.
RINGRAZIO!
Ero quasi
arrivata a pensare
che non si può
sempre dubitare
talvolta
è giusto pensare
che qualcosa
possa mutare,
che il modello
non sia sempre quello
che ci sia anche
del buono e del bello,
non la perfezione
solo un po'
d'attenzione.
ERRORE FATALE!
Mai lasciarsi andare
ti trovi in frantumi
per terra
non bastano gli anni
a trovare
i cocci sparsi
allo sbando
e se pure riattacchi
i tuoi pezzi
i segni si vedono
sempre
Ogni colpo
ti rende più brutta
un relitto
nel mare del dubbio"

Il "PESSIMISMO", solo negativo?

Il " PESSIMISMO" che tanta filosofia e letteratura ha ispirato, è solo negativo?
In filosofia il pessimismo è costituito dal tentativo di dare un senso a un'esperienza negativa e dolorosa del mondo.
Nell'età classica, solo il filosofo greco Egesia di Cirene ( Alessandria 300a.c.), mostra tratti pessimisti. Discepolo di Aristippo, teorico dell'edonismo positivo, trasformò la teoria del maestro in [i]Edonismo negativo: per Egesia il fine ultimo della vita umana è il piacere (come per Aristippo) ma questo viene concepito come stato negativo, ossia come assenza di dolore e di affanno..
Ma poiché ciò è molto difficile a conseguirsi nella vita, gli appare desiderabile la morte come insensibilità e tranquillità assoluta, cioè come assenza di ogni dolore.
La posizione di Egesia è piuttosto isolata nel mondo antico, ma un tipo di esperienza di pessimismo metafisico è facilmente riscontrabile nella religione, esempio chiaro è il cristianesimo, decisamente pessimista nella sua esperienza di vita terrena, ottimista nella speranza di una vita eterna e migliore nell'ipotesi dell'aldilà.
Assoluto è il pessimismo teorizzato, nella prima metà dell''800 da filosofi come Schopenauer (1788-1860), secondo il quale l'impossibilità di colmare con la volontà ciò che si desidera e che non si può avere, genera eterna insoddisfazione e dolore universale; ll dolore è così intrinseco alla volontà e cioè alla vita universale: da qui il pessimismo che, necessariamente, discende da questa concezione basata su una valutazione non positiva della natura.
In letteratura ritroviamo poi il pessimismo cosmico del Leopardi, per il quale le ragioni della tragedia del suo tempo risiedono nel conflitto fra natura e ragione o civiltà: si tratta del conflitto, tra l'altro, già esaminato da Rousseau.
Proseguendo troviamo altre rappresentazioni del pessimismo nella poesia di Pascoli, nei dipinti di Goya e perfino di Picasso le cui opere, da "Guernica" a "Minotauri" e "Tauromachie" sono espressioni chiare della deformazione interiore dell'uomo moderno.
In definitiva si può affermare che le opere degli autori che alla critica sono apparsi "pessimisti" sono da considerare universali, indipendentemente dall'epoca storica in cui essi sono vissuti: le esperienze da essi vissute infatti possono essere trasferite in ogni tempo e in ogni luogo ed il loro pensiero interpreta un senso di inquietudine e di ricerca dell'assoluto, che è caratteristico di ogni epoca e che è presente in ogni essere umano.
Chiudo con una citazione da Pavese, di cui mi piace evidenziare un tratto...

Il pessimismo cosmico è una dottrina di consolazione. Molto peggio sta chi credendo all'ambivalenza dell'ordine esistente, riconosce se stesso per inadatto, quindi per condannato a soffrire.( Cesare Pavese)

giovedì 25 novembre 2010

Concorso Poesia e Narrativa breve inedita "S.BENEDETTO NEL CUORE"

Con lo spirito di collaborazione e condivisione che vorrei divenisse il filo conduttore de "IL VIZIO DI SCRIVERE", pubblico il bando di concorso per Poesia e Narrativa indedita "S.BENEDETTO NEL CUORE".
BUONA PARTECIPAZIONE!

mercoledì 24 novembre 2010

Caffè e cornetto (1° classificato 46° ed.concorso di narrativa Loris Biagioni)

 CAFFE’ E CORNETTO


Non si dovrebbe iniziare la giornata desiderando di strangolare qualcuno: è un atteggiamento assolutamente negativo nei confronti del prossimo.
Eppure, quando il Rag. Righi, tutte le mattine veniva svegliato dalla moglie con una zaffata di alito acido in pieno viso e un calcio negli stinchi, il suo primo istinto era quello di mettere le mani intorno al collo di gallina della consorte e stringere a dovere, fino a vedere quegli occhi pallidi e cisposi schizzare fuori dalle orbite.
Invece, vinta la quotidiana tentazione, si alzava docilmente e ignorando l’ormai perenne mal di testa,  peggiorato da quando la premurosa coniuge aveva insistito perché dormisse senza cuscino, per curarsi un’artrosi cervicale di cui non soffriva, si trascinava in cucina per il rito del caffè.
Chiamare “caffè”  la brodaglia d’orzo che ormai da tempo aveva sostituito l’aromatica e corroborante bevanda, equivaleva quasi a un sacrilegio, ma gli piaceva conservare almeno il ricordo di tempi migliori.
 La sua vita non era mai stata straordinaria, a malapena ordinaria e forse anche meno: dall’alba dei tempi era sposato alla stessa donna e allo stesso impiego e detestava entrambi.
 Il matrimonio non gli aveva portato figli, ma quel vuoto era stato abbondantemente colmato da una pinguissima cognata, zitella e nullatenente, oltre che sedicente cardiopatica, che aveva notevolmente contribuito a rovinargli l’esistenza.
L’ultima trovata della mastodontica signorina era stata, appunto, l’eliminazione del caffè, notoriamente dannoso al cuore.
“Molto meglio - aveva sentenziato l’odiosa saccente - una bella tazza d’orzo: rinfresca”.
Sarebbe stato interessante approfondire il significato di quel “rinfresca”, ma lui si era ben guardato dal sollevare la questione, onde evitare di ritrovarsi intrappolato nell’ennesima, dotta
disquisizione della cognata sulle funzioni intestinali. Più saggio tacere e ingoiare l’orrendo beveraggio accompagnato da una formella di crusca che: “ … è una spazzola per l’intestino”
“ Ne avrai bisogno tu!” pensò il Rag. Righi, rivolgendosi mentalmente al donnone, mentre disponeva sul vassoio due tazze d’orzo con rispettive formelle e si apprestava a servire le “signore”  a letto.
Si presentò prima in camera della cognata: i trambusti intestinali di cui la donna era vittima avevano fatto il turno di notte;  l’aria della piccola camera ne era così pregna da sembrare impossibile che chiunque potesse sopravvivere respirandola. Ma la signorina Fifì, che inspiegabilmente associava un nome da  Chiwawa ad un aspetto da San Bernardo, contrariamente ad ogni logica, accolse il disgustato cognato cinguettando come un usignolo : “ Buongiorno, buongiornooo!”
Non ricevendo in risposta altro che un grugnito, Fifì atteggiò le labbra sottili, propriamente ornate da un egregio paio di baffetti, in quello che avrebbe dovuto essere un broncio civettuolo, che  apparve seducente come una pernacchia agli occhi dell’esasperato Righi il quale, abbandonato  il cibo sull’ampio grembo della cognata, fuggì dalla stanza come una mosca dalla tela di un ragno.
La “leggiadra”  Fifì  lo perseguitava, con una corte serrata da più di vent’anni, cioè da quando si era trasferita in pianta stabile in casa sua. Tutto accadeva sotto lo sguardo benevolo della legittima consorte del Rag. Righi che aveva designato la sorella minore a sostituirla in tutto e per tutto, una volta che lei fosse passata a miglior vita.
In realtà la signora Righi godeva di una salute perfetta, ma provava un piacere perverso nel
sentirsi vittima delle più esotiche e rare malattie, soprattutto se incurabili.
Vivendo e prosperando nella certezza di una morte prematura, la previdente signora, aveva organizzato il futuro del marito in modo perfetto: nulla sarebbe cambiato per lui dopo la sua dipartita.
Si sentiva molto fiera di se stessa e negli occhi le brillavano lacrime di coraggioso martirio quando raccontava, a chiunque fosse disposto ad ascoltarla e non, come avrebbe lasciato: “Righi sistemato” prima di andare.
Il pensiero che il marito potesse non gradire tale “sistemazione”,  non la sfiorava neppure: da quando quell’uomo  sapeva cos’era meglio per lui?
L’inetto entrò in camera da letto portando la colazione. La moglie sedeva rigida come un manico di scopa, le spalle appoggiate contro la testiera del letto; tra le mani  intrecciate teneva un foglietto che scambiò con la tazza d’orzo che il marito le porgeva.
“ La lista” disse secca. Aveva un modo di parlare e un tono di voce, che la facevano sembrare un sergente di cavalleria con le emorroidi.
“Leggi - sorbì rumorosamente il beverone - capito?”
Il Rag. Righi assentì mestamente consultando la lista: adempierla  gli sarebbe costato la pausa pranzo e almeno un’ora in più d’auto nel traffico bestiale dell’ora di punta, ma si rassegnò senza discutere.
Sarebbe stato comunque inutile chiedere alla moglie perché spettasse sempre a lui sbrigare tutte le incombenze possibili e immaginabili, mentre lei e la sorella scandivano le loro giornate sul palinsesto televisivo. Avrebbe soltanto scatenato una sequela infinita di lamentele che sarebbe sfociata nell’ immancabile crisi di autocommiserazione e  conseguente  ricaduta in una delle sue innumerevoli malattie, con relativo allettamento per giorni. Meglio evitare di trasformare il purgatorio in inferno.
  Curvo e rassegnato, accompagnato dal solito gentile saluto della moglie: “Riga dritto, Righi!”
il ragioniere lasciò la stanza, apprestandosi a sopravvivere a un’altra giornata.
Impacchettato nell’abito grigio,  strangolato dalla  detestata cravatta, il Rag. Righi si avviò, zoppicando un poco a causa delle scarpe, che sceglieva appositamente strette, per avere almeno un motivo di sollievo nel togliersele tornando a casa la sera, verso l’autorimessa.

Il pensiero che a breve avrebbe perpetrato per l’ennesima volta l’orrendo crimine, eludendo abilmente e impunemente la ferrea sorveglianza della moglie, lo rendeva euforico e fiero di sé.
Caffè e cornetto: sublime connubio! L’aromatica, forte fragranza dello scuro liquido che si unisce sulla lingua al soffice, dolce sapore di un burroso cornetto: il tumulto dei sensi, un attimo di piacere perfetto e, finalmente, la pace dell’appagamento.
Il Rag. Righi era stato iniziato alla pratica clandestina della colazione al bar da suo padre, Rag. Righi lui pure,  nell’ormai lontano giorno in cui questi, prossimo alla pensione, gli aveva passato le consegne.
All’epoca lui non era che uno sbarbatello: ardito architetto di castelli in aria e assertore irriducibile del “nulla è impossibile” .  Quella mattina, seduto accanto al padre, nella loro traballante utilitaria, il giovane Righi fremeva di malcelata impazienza: un futuro senza orizzonti si spalancava davanti ai suoi occhi.
Presto sarebbe subentrato al padre nell’impiego, avrebbe guadagnato e con l’indipendenza economica sarebbero arrivate tutte quelle “ cose inutili”,  come le definiva sua madre, che lui trovava tanto attraenti: pizza e cinema con gli amici il sabato sera, il campeggio d’estate, un giradischi e un’auto tutta sua… Volava la fantasia alla sportiva rossa, il cui modellino, posto su una mensola alta di camera sua, ammirava da anni.
La fermata, improvvisa e inaspettata, lo aveva riportato bruscamente alla realtà; senza apparente motivo suo padre aveva parcheggiato  in una piazzetta da cartolina, tutta aiuole fiorite e negozietti variopinti, e ora stava scendendo dall’auto con una strana espressione dipinta sul volto: simile a quella di un monello malizioso in procinto di combinarne una veramente grossa.
Lo seguì perplesso e un po’ seccato, era ansioso di arrivare al lavoro: non voleva fare tardi il suo primo giorno.

Fu sorpreso quando s’accorse che il padre lo stava conducendo in un bar, aveva sempre sentito  sua madre e le altre “pie donne” parlare di quei luoghi in modo sprezzante, pronunciando con tono di rimprovero frasi come: “Quello si beve tutto al bar…” oppure: ”Era un brav’uomo: si è perso quando ha cominciato ad andare al bar…”, non avrebbe mai immaginato che suo padre frequentasse quei “luoghi di perdizione” .
Ma la sorpresa divenne stupore quando il loro ingresso fu salutato con gioviale cordialità, sia dall’uomo grassoccio dietro al bancone, che da molti degli avventori presenti.
Il Rag. Righi aveva guardato suo padre scoprendo un uomo nuovo: ben dritto, lui di solito sempre un po’ curvo, aveva risposto ai saluti con affabilità e un bel sorriso poi, con voce ferma, aveva ordinato : “ Il solito per due”.
L’ometto dietro al banco si era voltato, armeggiando velocissimo e sicuro, come il personaggio di un film muto e in meno di un minuto li aveva serviti.
“ Fa’ come me” gli aveva detto il padre.
Con la concentrazione di un sommelier si era bagnato la bocca con una goccia di caffè ristretto e amaro, facendo schioccare ogni tanto le labbra, quindi aveva scelto dal vassoio un cornetto ben tornito, dalla superficie lucida e dorata, e l’aveva delicatamente diviso a metà. Prima aveva mangiato la parte con meno farcitura, annaffiandola con un altro sorsetto di caffè, poi si era dedicato, quasi con devozione, alla marmellata, togliendola dalla cavità pastosa del cornetto con piccoli colpi della lingua. Quando la farcia era terminata, Righi padre aveva gustato la pasta soffice, accompagnata dal caffè rimasto.
Affascinato dall’espressione di beatitudine dipinta sul volto del padre, il giovane Righi lo aveva imitato, sviluppando da quel giorno una dipendenza assoluta da caffè e cornetto.
Inizialmente la colazione al bar era stata solo un piacevole diversivo all’onnipresente zuppa di pane e latte che sua madre gli propinava ogni mattina per colazione, ma ben presto, prima con il naufragare delle sue illusioni lavorative in un mare di aberranti scartoffie, poi con la caduta incosciente nel suo matrimonio capestro, quell’unico momento che era riuscito a conservare per se stesso, era diventato il fulcro della sua piatta esistenza.
Con gli anni aveva compreso perché il padre lo avesse addestrato a quell’innocente piacere:
entrare nel bar la mattina gli dava quella sensazione di  calore che non trovava mai rientrando a casa sua. Maria, la bella proprietaria, lo accoglieva sempre con un sorriso e servendogli  al tavolo un fragrante cornetto, accompagnato da un caffè forte e cremoso, talvolta gli sfiorava la spalla con il seno generoso, facendolo sentire, per un momento, un uomo molto amato.
Spinse la porta già pronto al saluto, ma fu accolto da un silenzio di ghiaccio: Maria, di solito sempre in movimento, stava ferma dietro al bancone con le mani poggiate sul ripiano; aveva gli occhi dilatati e il volto pallidissimo. Anche le persone sedute ai tavoli tenevano le mani in vista, con le dita ben divaricate. Tutti erano incredibilmente fermi e zitti.
Il Rag. Righi non ebbe il tempo di realizzare la scena, che subito un violento spintone lo proiettò all’interno del locale. Incespicò su se stesso, riuscendo a stento a mantenere l’equilibrio, quando ritrovò la posizione eretta gli parve di trovarsi su un set cinematografico: due balordi con i volti coperti da occhiali scuri e bandane, armati di coltelli e spranghe, minacciavano i presenti pretendendo denaro e gioielli.
 Righi, attonito, non riusciva a capacitarsi che una cosa del genere stesse accadendo nel suo bar; si sentì offeso e ferito, come un uomo cui stessero rapinando la casa.
Terminato di ripulire i presenti i malviventi intimarono a Maria di consegnare l’incasso; la donna vuotò la cassa, ma la somma era minima e i due rapinatori, divenuti nervosi e violenti, cominciarono a distruggere tutto ciò che capitava loro a tiro: bottiglie, vetrine, bicchieri…i cocci volavano ovunque per poi ricadere sul pavimento ricoprendolo.

La povera Maria, vedendo andare in frantumi il lavoro di anni, iniziò a piangere e urlare  attirando l’attenzione di uno dei due rapinatori che, per farla tacere, le afferrò i capelli strattonandoli violentemente. Terrorizzata la donna si divincolò dalla presa con tale forza, che una grossa ciocca restò nella mano dell’uomo e un rivoletto di sangue cominciò a colare sulla tempia di Maria.
Disturbati dalle urla isteriche della donna, i due delinquenti decisero che era tempo di alzare i tacchi e si avviarono alla porta.
Vedere Maria, per la quale nutriva i più teneri sentimenti, vessata e sanguinante, fece scattare in Righi, di solito così mite e sottomesso, un primordiale istinto di ribellione: non voleva che quei due la passassero liscia.
Il rapinatore che aveva strappato i capelli a Maria gli passò accanto correndo, Righi allungò il piede facendolo inciampare poi, fulmineo, afferrò una sedia e colpì con forza l’uomo già a terra. Il secondo rapinatore si precipitò in aiuto del compagno caduto, trascurando scioccamente il Righi che usò la stessa sedia di poc’anzi, per fracassare il naso del balordo  che s’accasciò sul compagno, come un sacco vuoto.
“Ecco un bel mucchio di letame!” esclamò il Rag. Righi, trovando la forza di sottolineare la propria bravata, prima di cadere svenuto per l’emozione e la paura postuma.
Si risvegliò, pochi minuti dopo, tra le braccia grate e profumate di Maria: era bellissima.
 Anche con il trucco sfatto e il sangue raggrumato tra i capelli arruffati, restava la donna più desiderabile che conoscesse.
Deciso a godersi fino in fondo quel momento di gloria,  Righi affondò il viso tra i seni morbidi e accoglienti di Maria poi, ancora confuso, ma non senza una calcolata dose di acquisita spacconeria, ordinò: “Caffè e cornetto”.



lunedì 22 novembre 2010

Concorso letterario di poesia e narrativa "CONVIVIUM" I edizione

La neonata associazione culturale "CONVIVIUM" ha scelto di inaugurare la propria fondazione indicendo un concorso letterario nazionale di poesia e narrativa, aperto a tutti coloro che amano scrivere.
Scopi principali dell'associazione sono la diffusione, la condivisione e l'approffondimento delle più svariate forme d'arte.
E' parso quindi, ai fondatori, che la promozione di un concorso letterario su base nazionale potesse, meglio di altre iniziative, facilitare l'incontro di nuovi amici e favorire lo scambio d'idee ed opinioni.
Invitiamo tutti i "grafomani" a partecipare al nostro concorso, per mettersi alla prova, confrontarsi, condividere il loro lavoro con chi, come loro, ancora subisce il fascino della parola scritta.
Potete consultare il bando completo alla pagina: "Concorso letterario di poesia e narravita "CONVIVIUM" I edizione" di questo blog o su www.concorsiletterari.net 

Il Viaggiatore


Dalla strada, aggrappata al fianco della montagna brulla, si vede una baia solitaria: rocce scure, contro il cielo indaco, abbracciano un lembo di sabbia vulcanica. nera e brillante.
Un ripido sentiero degrada verso il mare, tra arbusti bruciati dalla siccità e rare piante di olivo dai tronchi contorti.
L’auto sobbalza a ogni metro, sollevando una polvere  giallo zafferano, simile a borotalco.
Non ci sono costruzioni né coltivazioni, il silenzio è pieno solo del rombo del mare, ancora lontano, e del frinire dei grilli tra gli sterpi.
La pendenza e la polvere impediscono la vista della strada principale così, voltandosi indietro, si ha l’impressione di galleggiare in un mare giallo.
L’ultimo tratto è percorribile solo a piedi: il vento soffia incessante e caldissimo, in pochi minuti
 la polvere spessa riempie occhi e gola…”
Seduta accanto al letto, in quell’angusta stanza d’ospedale, respirando con parsimonia l’aria, pregna di disinfettante e malattia , Marta leggeva ad alta voce un vecchio diario di suo padre.
Non era certa che l’uomo emaciato e immobile, costretto in quel letto da ormai molte settimane, la udisse, ma poco importava. Leggeva  per se stessa, per conoscere meglio quel padre, tanto spesso lontano, preso dai suoi viaggi e dai suoi libri, più di quanto fosse mai stato preso da lei.
Non c’era risentimento verso il genitore, nessuna recriminazione; amava suo padre per l’uomo che era: libero e imprevedibile, come una folata di vento.
Guardandolo ora, giunto al traguardo della vita, aveva il solo rimpianto di non essergli stata più accanto, di non averlo costretto a fermarsi, per parlare con lei oppure di non essersi costretta a seguirlo, per imparare da lui.  I brevi periodi trascorsi insieme erano stati così ricchi e intensi, pieni e appaganti, che dubitava avrebbe potuto avere di più da un padre sedentario e “normale” tuttavia, il vago senso di abbandono, che aveva sperimentato fin da bambina, ancora aleggiava tra loro. Non aveva mai saputo quando suo padre sarebbe tornato o ripartito, tutto era casuale e improvviso nella sua vita: bastavano una telefonata o un’idea, per far apparire sulle spalle del padre il vecchio zaino militare e vederli,  entrambi, prendere il volo. Sembrava impossibile ora, che il grande viaggiatore, prigioniero del proprio corpo, fosse costretto all’immobilità.. Una lacrima  disegnò sulla guancia di Marzia un fiume tortuoso e cadde sulla mano sottile, segnata da grosse vene bluastre, dell’uomo giacente.
“ Non piangere bambina, Dio conta le lacrime delle donne, ma non le asciuga…”
La sua voce gli rimbalzava in testa, dilatandosi in mille eco, che si confondevano nel suo petto con i brevi e dolorosi respiri.
Perso in quell’universo senza dimensione e tempo, popolato solo di immagini  evocate dai sui ricordi, poteva udire e comprendere ogni cosa, ma non essere udito.
Nei primi istanti di quella assurda prigionia,  terrorizzato dall’assenza di un corpo che gli fosse veicolo per il mondo, aveva tentato, con tutta la forza della più angosciosa disperazione, di tornare. Per un tempo che gli era parso infinito, aveva urlato, chiamato, supplicato; era arrivato ad insultare e maledire. Infine, sfinito di essere l’unico auditore di se stesso,  si era arreso. Aveva compreso e accettato il suo nuovo stato e, come era nella sua natura, aveva iniziato a esplorarlo: luoghi segreti e sconosciuti erano venuti alla luce. Capacità sopite erano state risvegliate: un nuovo mondo gli aveva aperto le porte. Senza fatica aveva trovato le risposte, a tutti i quesiti insoluti della propria esistenza. Aveva penetrato, finalmente, il fulcro della vita: tutto era così semplice, alla fine!
Forte della propria acquisita saggezza, libero da ogni timore per il futuro, solo lo angustiava il dolore della figlia. Avrebbe voluto rassicurarla, farle comprendere in qualche modo che, nonostante quello che i medici dicevano, lui stava bene, quella sua condizione non era che la preparazione a un altro viaggio: il più importante.
Sentì che Marta gli accarezzava la mano, detergendo con la sua, la lacrima sfuggita di poco prima poi, con voce un po’ incerta riprese a leggere i suoi vecchi appunti di viaggio.
“…Il sentiero che scende alla piaggia è ripido, seminato di pietre aguzze. Avvicinandosi il rumore del mare si fa più forte, si percepisce profumo di salsedine nel vento .
Al termine della discesa, un’ampia spianata puntellata di giganteschi pini dalle chiome ad ombrello, si offre allo sguardo, il terreno è ricoperto da uno spesso strato di aghi secchi, che scricchiolano a ogni passo.
La pineta è fresca e buia, come una cattedrale gotica: tra i rami intrecciati, in forme strane e drammatiche, si scorgono lembi di cielo purissimo. Il profumo dei pini e degli aghi essiccati, misto al vento di mare, ricorda incenso e candele.
La galleria naturale sfocia infine sulla spiaggia. Al primo colpo d’occhio lo spettacolo toglie il fiato: basse dune di sabbia nera scintillano di pirite, come un cielo notturno. Oltre i dolci declivi il mare, grigio e rabbioso, si schianta con paurosi ruggiti su una barriera di roccia e, prima di tornare all’orizzonte, lascia un po’ di sé in una vasta pozza dove, placide e limpidissime acque, accolgono piccoli pesci gialli e blu ed enormi granchi, neri come le rocce che popolano.
Il vento e il mare non regalano tregua a quella poca terra: la battono, la erodono con incessante lavorio così che, dove un attimo prima c’era un cratere, ora si vede un tumulo. Solo le rocce aguzze sono un riferimento stabile.
Il mare qui non mormora, urla con tale potenza da far sobbalzare il cuore in petto a ogni schianto. Le onde si susseguono senza tregua, altissime e schiumanti, ti sovrastano per un istante, come fauci spalancate, prima di infrangersi sulla pietra: ancora e ancora.
E’ un luogo selvaggio e magnifico, dove la natura mostra il suo inesorabile potere e la sua terrificante bellezza. E’ un luogo dove il tempo è fermo e l’uomo, solo di passaggio.”
Marta chiuse il vecchio quaderno e lo poggiò sul letto, accanto al padre poi, presa da un impulso improvviso, sollevò la mano inerte dell’uomo e con essa coprì la copertina consunta del diario.
“ Ecco – pensò - ora il mondo è nelle tue mani, papà. Non smetterai mai di viaggiare.”
Si alzò e lasciò quella stanza, priva di vita apparente.
Il pensiero, silenzioso come una piuma portata dal vento, volteggiò senza meta, infine si posò sulla coscienza sopita dell’uomo che lo fece suo.
  No, non smetterò mai di viaggiare. Quando il mio buio verrà, improvviso, come un tramonto d’Africa o estenuante, come un’aurora boreale, mi offrirò al sua abbraccio senza timore.
Con l’ultimo palpitar di ciglia, porterò con me: notti d’Australia, pregne d’eucalipto e cicale,un granchio nero, su rocce battute dall’onda. Neve e pioggia, intrecciate in una danza di gelo. Un viale di palme in rete di luci e stelle, stelle a milioni, mute testimoni di questa vita in fuga.”


sabato 20 novembre 2010

IL VIZIO DI SCRIVERE

Bisogna prendere speciali precauzioni contro la malattia dello scrivere, perché è un male pericoloso e contagioso.
Pierre Abélard, Lettere a Eloisa, XII sec.


Comincio con una citazione che apprezzo per il grande amore che esprime verso l'arte dello scrivere.
Concordo che scrivere possa diventare quasi una malattia, volendo usare le parole di Abèlard, ma se scrivere è una malattia, almeno, al contrario delle altre, è BENEFICA.
Scrivere è un modo di evadere, di sollevarsi al di sopra di una quotidianità, spesso aberrante, che ci costringe e ci imprigiona.
Seduti alla nostra scrivania, lo schermo del pc o il vecchio, caro foglio un po' spiegazzato, come unico orizzonte, anche se assolutamente stanziali e rinchiusi, in effetti siamo più liberi degli uccelli. Infatti un volo può essere fermato e comunque ha confini naturali, chi scrive ha l'infinito per sè: è padrone assoluto di mondi e destini, è un "creatore".
Tutto diventa possibile, possiamo plasmare vite e destini, possiamo reinventare noi stessi o semplicemente raccontarci, aprire la nostra anima e, in questo modo, liberarla.
Scrivere va ben oltre la semplice azione meccanica, scrivere è catartico e terapeutico; quando si riescono a liberare un pensiero o un sentimento o un dolore mettendoli sulla carta, improvvisamente questi  assumono una dimensione diversa, più realistica, quindi più facile da accettare ed affrontare.
Auguro a tutti un po' di "vizio di scrivere" e soprattutto il coraggio di condividere ciò che si scrive, perchè la ricchezza di ognuno arricchisca anche gli altri.