Misurò il proprio sfinimento dallo sforzo che gli costò il semplice infilare la chiave magnetica nella serratura della porta.
La camera lo accolse come ogni altra : fredda, buia e silenziosa.
Odiava gli alberghi: l'odore stantio che impregnava le mura troppo vissute eppure senza storie, la dozzinale, spigolosa efficienza dell'arredo, la moquette sempre blu, sempre consunta, le tende tirate, le luci volutamente gialle e fioche a creare un'illusione di casalinga intimità.
"Purché ci sia un letto…" pensò lasciando cadere a terra la valigia senza curarsene affatto poi, con estrema cautela e materna cura, poggiò l'ingombrante involto di carta marrone che teneva sotto il braccio sul ripiano della scrivania.
Ce l'aveva fatta, dopo due lunghi mesi di ricerca, di spostamenti estenuanti con treni superveloci e superaffollati, auto a noleggio, metropolitane, aerei… e che altro? Non lo ricordava più.
Del resto non aveva importanza ora, lo scopo del viaggio era stato raggiunto.
Il kimono, che si diceva appartenuto a Mariko: la leggendaria, la bellissima, colei della quale si narrava suonasse e cantasse con tale divina leggiadria da indurre la follia negli uomini, era lì, avvolto nella spessa carta da pacco, per camuffarne l'aspetto e l’immenso valore.
“Vecchie storie, assurde leggende” pensò togliendosi velocemente gli abiti fradici di pioggia per lasciarsi poi cadere sul letto, pesante come un corpo senza vita.
Un attimo di tregua, la sensazione di indolenzimento che si diffonde nel corpo, quasi piacevole…
“Dio, che stanchezza e ancora tanto lavoro da fare…ma ora non posso, non riesco neppure a pensare”
Buio.
Il fantomatico e losco personaggio che gli aveva procurato il kimono, prendendo con ambo le mani il congruo compenso preteso, tra un inchino melenso e l’altro, gli aveva propinato una di quelle assurde storie di cui l’oriente è piena.
Si narrava che Mariko, dagli occhi d’agata e le sopracciglia di falena, fosse all’epoca una geisha di grandissima fama, stimata soprattutto per la sua meravigliosa abilità nel suonare il Koto. Nessuna come lei sapeva trarre da quelle poche corde tese suoni tanto puri e perfetti, armonie così dolci: fuoco e aria, acqua e terra e tutti gli elementi ella riconduceva al suono unico del suo strumento.
Chiunque l’ascoltasse suonare, anche una sola volta, cadeva preda di una sorta di malia perversa e, come per una droga, non poteva più rinunciare a udire quella musica.
La divina Mariko, conscia del proprio potere, divenne presto avida e insaziabile. Ascoltarla suonare era un lusso per pochi: alcuni dilapidarono ogni avere per il piacere di un’ora con lei, altri non potendo recarle più doni, scelsero la più nobile via del Seppuko per preservare se stessi dalla vergogna del mendicare.
Nulla inteneriva Mariko,: tanto dolce era la sua musica quanto freddo il suo cuore .
Al culmine della sua fama e della sua bellezza fu chiamata a portare la propria arte al cospetto del divino Imperatore, ma neppure per il dio in terra ella fece eccezione. Richiese, quale compenso, un kimono come mai ne erano stati confezionati, poiché era partorito dalla mente stessa della geisha. Tutte le sfumature del cielo e del fuoco dovevano essere tessute in seta e illuminate da fili d’argento; i più abili maestri del tempo avrebbero dipinto fantasie di fiori e uccelli, intrecciati tra loro fino a confondersi, restando però perfettamente distinguibili.
Una fantasia, un sogno che diveniva materia, questo chiedeva Mariko e questo avrebbe ottenuto: poiché nulla poteva esserle negato.
Venne il giorno della grande udienza, Mariko indossò il suo sogno e divenne essa stessa divinità: po neppure all’ Imperatore era mai stato dato di indossare un indumento tanto splendido.
Percorse le strade assisa su una portantina aperta, il suo insaziabile desiderio di gloria bramava l’ammirazione del mondo. Rigida, eretta, più luminosa del sole, irraggiungibile eppure morbida come la luce in una notte di luna piena.
Entrò nel palazzo imperiale accompagnata dall’estasi della folla che, accalcatasi per ammirarla, prorompeva al suo passaggio in esclamazioni estatiche lodando ora la donna, ora l’artista , ora lo splendore, quasi sopranaturale, dell’indumento da lei indossato.
Un trionfo.
La sala del trono era piena di ospiti illustri: nobili, alti dignitari, ministri, studiosi eppure il silenzio si fece profondo e buio, come una notte d’inverno, quando Mariko passò tra le due ali di folla, ondeggiando sensuale sugli altissimi okomo: il corpo minuto avvolto nella meraviglia della seta, i capelli nerissimi raccolti nell’elaborata acconciatura, resi così splendenti dalla cera da riflettere in bagliori blu la luce delle lanterne. Pochi passi dietro di lei la giovane apprendista, poco più che bambina, recava tra le braccia il Koto; lo strumento era grande, pesante, troppo per le gracili braccia che lo sorreggevano, ma la giovane, al pari della sua Signora, incedeva eretta e compresa nel suo ruolo.
Così, nel silenzio spezzato solo dal fruscio di sete preziose, il piccolo corteo giunse ai piedi dell’alto trono.
Lassù, celato da leggere cortine, sedeva il divino Imperatore. La geisha si lasciò cadere in ginocchio teatralmente: la bianca fronte a toccare terra, in quel movimento vi era tutta la fluida grazia di un fiore reciso che, ancora una volta, incantò i presenti. L’Imperatore la onorò parlandole con la sua stessa voce, invitandola a ricreare la magia della musica e Mariko ubbidì.
Con le dita sottili prese a pizzicare le forti corde del suo strumento: l’aria si riempì della voce del vento, del mormorio allegro del ruscello al disgelo, del canto di sconosciuti uccelli, di risa trattenute e di languide parole bisbigliate alla luce delle stelle, del ruggito dei marosi, del tintinnare della pioggia a primavera, di tutto il conosciuto e l’ignoto. Di ciò che ognuno voleva udire.
Vi era un angolo poco illuminato nella grande sala del trono, un piccolo riparo tranquillo, un luogo d’osservazione ideale per chi dovesse familiarizzare, senza destare curiosità, con gli usi di un Paese nuovo e difficile. Da questa posizione privilegiata Da Silva la vide incedere, fluttuando elegante come un bambù sfiorato dal vento, splendida come la più fulgida delle albe.
Osservò, in perfetto agio, la schiena della geisha formare un’armoniosa curva mentre, china e concentrata, faceva scaturire dallo strano strumento, suoni sconosciuti al suo orecchio.
Mai, in tutta la sua non breve e avventurosa esistenza, aveva provato per una donna un’attrazione tanto profonda e immediata: tutto in quel fragile essere riconduceva il suo pensiero all’idea dell’amore. Il viso dall’ovale perfetto dove spiccavano, nerissimi, i grandi occhi rialzati verso le tempie, il lungo collo, bianco e delicato, la nuca lasciata scoperta, con le prime vertebre sapientemente poste in risalto da un delicato disegno.
Poteva solo immaginarne la perfezione del corpo, paludato sotto il pesante indumento dai colori cangianti e dall’intricato disegno, ma ciò che intravedeva lo eccitava e ciò che non poteva vedere, alimentava la sua immaginazione.
La musica terminò improvvisamente come era iniziata, il silenzio fu totale, Da Silva si sarebbe aspettato uno scroscio di applausi, commenti di apprezzamento, invece nulla.
Guardò il pubblico: gli uomini erano immobili, seduti eretti sui talloni, le mani saldamente appoggiate sulle cosce con le dita rivolte all’interno e i gomiti all’esterno a formare un angolo quasi retto; alcuni avevano gli occhi fortemente serrati e una ruga decisa marcava l’attaccatura del naso, altri sembravano guardare un punto infinitamente lontano, invisibile a tutti fuorché a loro. Spostò lo sguardo sulla geisha ancora inginocchiata, il capo lievemente chinato, gli occhi abbassati, le mani ora nascoste nelle ampie maniche del kimono lei pure, immobile.
Da Silva si girò verso il suo interprete, per domandare cosa significasse quel silenzio di gelo: forse l’esibizione era stata deludente? Ma, prima che potesse formulare la domanda , un fruscio di sete attirò la sua attenzione: la geisha si era levata con un unico movimento, la giovane apprendista si era subito appressata a raccogliere lo strumento e il piccolo corteo, riformatosi, aveva cominciato a muoversi per guadagnare l’uscita. Nell’attimo in cui le due donne imboccarono il corridoio formato dalle due ali di uomini immobili essi, all’unisono, chinarono le schiene fino a toccare con le fronti il pavimento di legno lucidato e così rimasero, per tutto il tempo che Mariko impiegò a raggiungere l’uscita della sala.
Quando le pesanti porte si furono chiuse, dissolvendo l’eterea immagine della geisha, Da Silva, lo sguardo acceso fisso sul punto dove Mariko era stata fino a poco prima, mormorò rivolto più a se stesso che al minuscolo uomo che era la sua voce in quel Paese estraneo: “ La voglio”.
L’interprete si limitò ad annuire e si dileguò come un’ombra, per eseguire l’ordine ricevuto.
Keyco, l’amata dal divino Imperatore, aveva assistito, non vista, al trionfo di Mariko e ora sentiva salire in bocca l’amaro sapore dell’invidia. Non aveva mai visto prima la geisha della quale tutta la città raccontava meraviglie, fino a quel momento si era convinta che si trattasse solo di futili esagerazioni: nessuna poteva eguagliare lei, Keyco; celebrata in versi perfino dal grande Basho, ma nello stesso istante in cui Mariko aveva fatto il suo ingresso, tutte le sue convinzioni erano svanite, come la leggera nebbia del mattino al primo raggio di sole.
Tutto ciò che aveva udito era così reale da darle i brividi: quella donna non solo era di una bellezza perfetta, ma possedeva anche la naturale eleganza che contraddistingue le dame di alto lignaggio. Tutto ciò, unito allo straordinario talento per la musica, faceva di lei un temibile avversario anzi, un nemico da abbattere prima di essere abbattuti a propria volta . Questo era ciò che andava fatto: eliminare la minaccia prima che divenisse pericolo.
Nascosta dietro un pesante pannello dipinto, Keyco aveva osservato, oltre a Mariko, anche il grande e irsuto uomo venuto dal Paese dove il sole tramonta. Quello strano personaggio, così brutto e sgraziato, da ricordarle nelle sembianze un goffo orso, era rimasto zitto e immobile, rapito dal quella musica che, come si diceva, avrebbe appunto potuto ammansire perfino le belve più feroci. Ma non era stata solo la musica ad attrarre l’attenzione dell’ospite straniero, Keyco era certa di aver letto negli occhi rotondi e chiari di quell’uomo un sentimento a lei ben noto: il desiderio.
L’interprete le passò accanto pochi istanti dopo aver raccolto le ultime parole del suo padrone. Senza muoversi dal proprio nascondiglio, la cortigiana lo bloccò con un discreto colpo di tosse.
L’uomo viveva e lavorava nel palazzo imperiale da molti anni, ne conosceva bene gli abitati e le loro abitudini, riconobbe il segnale e subito seppe quale augusto personaggio richiedesse la sua attenzione, così come fu certo di non avere scampo: nulla poteva essere negato alla favorita del celeste Imperatore .
“Che ti ha detto lo straniero?”
Il tono della domanda non era casuale e non ammetteva deroghe
“Mia Signora – l’uomo s’inchinò profondamente nel vano tentativo di prendere tempo – voi qui !”
“Rispondi”
“Mia Signora, l’ospite straniero è onorato della possibilità datagli di assistere all’esibizione d…”
Conoscendo bene la suscettibilità della donna ricacciò in gola la fine della frase quale era stata formulata nella sua mente.”...della divina Mariko”
“ Rispondi !” Questa volta il tono era più squillante e una nota di rabbia già incrinava la suadente voce di Keyco
“ La mia Signora avrà udito con quanta….”
Un violento colpo, assestato sulla parte esposta del collo con il ventaglio chiuso, convinsero l’interprete che in fondo non aveva obbligo di discrezione verso l’ospite straniero
“ Mia Signora, lo straniero si è invaghito della geisha e la vuole per sé “
Vedendo l’espressione della donna mutare e non comprendendone il motivo, l’interprete si affrettò ad aggiungere:
“Ma sono certo che la Signora Mariko non accetterà a nessun prezzo l’unione con quel mostro peloso, sarebbe contro natura! “
Un nuovo e più vigoroso colpo di ventaglio andò ad aggiungersi al precedente
“Sei uno stupido, come ti permetti di parlare così dell’ospite straniero! Credi che se queste tue parole venissero riferite al divino Imperatore egli non ti punirebbe per la tua impudenza?
Offendi un Suo ospite, lo chiami mostro, animale contro natura, sei dunque fuori di senno, non tieni alla tua vita?”
Improvvisamente le porte degli inferi si spalancarono sotto i piedi del pover’ uomo che prese a balbettare in preda alla più atroce confusione.
“ Mia Signora, io…io credevo che Voi…non voleste, che foste offesa dall’audacia di quell’uomo…io. Perdonatemi Signora, non dite nulla alla nostra Celeste Maestà, aiutatemi!”
Keyco non si mosse e non parlò ancora per qualche tempo: le piaceva ascoltare suppliche e lamenti; amava il lezzo di paura emanato dall’uomo, le accarezzava le nari, dandole la misura del proprio potere.
Infine parlò:
“Mi hai convinto vecchio sciocco ti aiuterò, ma tu dovrai fare esattamente ciò che ti ordinerò. E ricorda, se le cose non saranno fatte a modo mio o se fallirai, per te sarà la fine e mi accerterò personalmente che la morte non giunga per te rapida e misericordiosa. Hai inteso bene ciò che ho detto?”
Un terzo colpo sottolineò la serietà dell’affermazione
“ Mia bella e dolce Signora, come potete pensare che io vi disobbedisca, farò tutto ciò che mi ordinerete e se pure non sarà un ordine io lo considererò tale”
“Molto bene. Andrai dalla geisha Mariko immediatamente e le dirai ciò che chiede il tuo padrone. Non le offrirai NULLA in cambio e lei non dovrà chiedere NULLA. Informerai la geisha Mariko che è desiderio particolare dell’Imperatore che ella favorisca il suo ospite”
“Signora sì, ma l’Imp..”
“Taci maledetto stupido, taci, taci…- rapidi colpi alla nuca si intercalavano alle parole – non hai capito, dunque, ciò che ti ho detto poco fa?”
“ Basta Signora, non picchiatemi più, ho capito bene ora: andrò dalla geisha Mariko e dirò che l’Imperatore in persona le ordina di assecondare i desideri dell’ospite straniero e che dovrà farlo senza nulla pretendere”
“Ora hai inteso bene”
“Grazie mia Signora della vostra pazienza e benevolenza”
Dette queste parole l’uomo fece per congedarsi, ma non si era ancora voltato del tutto che la voce stentorea di Keyco lo bloccò:
“Ancora una cosa, buon vecchio. Una piccola cosa…”
“Tutto ciò che la mia Signora desidera”
“Riferirai all’ospite straniero che solo grazie alla mia influenza Mariko gli ha aperto le sue porte. Così che egli sappia a chi deve gratitudine”
Sollevato dalla semplicità di tale richiesta l’interprete si affrettò a rispondere:
“Oh, mia Signora ! Per il poco che conosco quell’uomo, quando saprà ciò che avete fatto per favorirlo, vorrà certo omaggiarvi con qualcosa di più tangibile della semplice gratitudine. Anzi se ci fosse qualcosa che Voi….”
La risposta fu immediata e colpì il pover’uomo più crudelmente del ventaglio di Keyco:
“Il kimono, quello indossato oggi da Mariko. Lo voglio”
“Dolce Signora, ciò che chiedete è impossibile: se anche Mariko fosse disposta a rinunciarvi non potrebbe darlo ad alcuno, è un dono del Divino Signore, cederlo sarebbe un’offesa terribile e significherebbe morte certa per lei “
“ Che lo straniero lo prenda di nascosto” insistette la donna
“Ma se pure il padrone straniero lo trafugasse, ugualmente per Mariko sarebbe la fine. Il disonore di non aver saputo proteggere un bene tanto prezioso, il dono di un Dio, la costringerebbe a infliggersi la morte”
La risposta fu inesorabile
“Che Mariko muoia, dunque, pare inevitabile”
Pur temendone l’ira vendicativa, l’uomo fece un estremo tentativo di dissuadere Keyco dal proprio folle intendimento:
“Mia Signora, siete certa di volere quell’indumento? A che vi gioverebbe ottenerlo, non potrete mai indossarlo, dovreste nasconderlo alla vista di tutti e se qualcuno lo vedesse. Pensate alle conseguenze”
Gli occhi di Keyco, ridotti a fessure scintillanti d’odio, si fissarono sull’uomo.
“ Vai e fai come ti ho detto, o sarai tu a conoscere le conseguenze della tua disobbedienza”
Il suo tono non lasciava dubbi.
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