giovedì 2 dicembre 2010

Dannatamente bella


Comodamente seduta sulla poltrona di fronte alla mia,la gamba sinistra ripiegata sotto il corpo, il gomito destro poggiato con grazia sul bracciolo a formare un’armonica diagonale con il busto, Lala mi appare come una splendida, sinuosa ed altera gatta.
Tutto in lei ricorda un felino: il corpo lungo e snello, gli arti flessuosi e torniti, gli immensi occhi color verderame che, sempre vigili nella loro inquietante immobilità,  spiccano come gemme nel piccolo viso triangolare, sprofondato nella massa selvaggia dei capelli scurissimi.
Guardandola ora, splendente di gioventù nel suo succinto abito nero, la bocca voluttuosa e piena, leggermente dischiusa come a offrire ed accogliere un bacio, non mi stupisco che lui l’abbia preferita a me.
Abbasso lo sguardo sulle mie mani, dove già compaiono le prime macchie brune dell’età, deglutisco prima di chiedere:
”Cosa vuoi, Lala?”
Sento la mia voce,metallica e lontana,tremare.
Fisso lo sguardo sulla parete bianca, oltre la sua testa ricciuta, mi concentro su una piccola crepa dell’intonaco attendendo una risposta.
Sprofondo,in quella fessura come in una voragine; i ricordi, fantasmi lontani,ritornano.
In questa stessa stanza,un milione di anni fa, Lala entrò nella nostra vita.
Aveva da poco compiuto dieci anni, uno Stato previdente l’aveva di recente sottratta alla madre, le motivazioni di tale atto erano ampiamente dettagliate nel faldone che, un’occhialuta e frettolosa assistente sociale, ci lasciò a corredo della bambina.
Nel freddo e pomposo linguaggio della burocrazia veniva soprattutto posto l’accento, sulla condizione di semi-abbandono della piccola dovuta alle prolungate assenze della madre per futili, quanto praticamente ignote ragioni.
Scorsi velocemente queste e poche altre informazioni che riguardavano la nostra nuova ospite, ascoltammo l’assistente sociale snocciolare le solite raccomandazioni ed infine fummo soli.
Mio marito ed io non eravamo nuovi a questa esperienza, qualche anno prima, abbandonata ogni speranza di avere un figlio nostro, avevamo deciso di renderci disponibili ad ospitare bambini e ragazzi provenienti da famiglie in stato di temporanea necessità.
 Lala era la nostra quarta “figlia”, così chiamavamo tra noi coloro che ci venivano affidati e come tali li consideravamo
per il periodo che restavano nella nostra casa; per loro noi eravamo Anna e Carlo, non ci eravamo mai concessi la gioia di sentirci chiamare mamma e papà, mai fino a quel giorno.
La piccola si dimostrò subito molto loquace, spensierata ed  affettuosa: la sera stessa del suo arrivo, quando l’accompagnai nella sua camera, mi gettò le braccia al collo e mi baciò dicendo: “Buonanotte,mamma…”. Fui colta di sorpresa da quell’atto e l’espressione di sincera gratitudine che scorsi nei suoi incredibili occhi, mi fece desistere dal pregarla di non chiamarmi così in futuro.
Più tardi riferì l’episodio a mio marito: ”Non ti sembra strano?” gli chiesi dopo avergli narrato i fatti.









“E’ solo una bambina che nasconde la sua paura dietro una forzata disinvoltura, in realtà soffre per l’assenza della sua mamma. Forse potresti dimenticare la tua regola ferrea per una volta, in fondo che male c’è se di tanto in tanto ti chiama così?”
Non risposi, ma quando il giorno dopo Lala mi chiamò ancora “mamma”, non tentai neppure di correggerla.
Lala trascorse con noi quasi quattro anni poi, lo stesso Stato che ce l’aveva affidata, decise che era tempo per lei di ricongiungersi alla madre.
I giorni che precedettero il distacco furono angoscianti, Lala urlava e piangeva, ci supplicava di non mandarla via, di non permettere che la prendessero.
 Tentammo in tutti i modi possibili di tenerla  con noi, ma non ci fu concesso: la giustizia non ha cuore.
Venne il giorno della partenza; Lala, sorprendendo tutti, sfoderò un sorriso indecifrabile,ci salutò con una stretta di  mano, come fossimo semplici conoscenti, e senza una parola partì.
“Ci odia.” Dissi a mio marito, guardando le luci posteriori dell’auto che la portava via allontanarsi.
“No, – rispose lui – ci ama, ma si sente tradita. Vedrai, presto si renderà conto che non siamo stati noi a non volerla più e troverà il modo di tornare”.
Trascorsero tre anni, da lei neppure un cenno.
I giorni passavano lenti, al dolore della separazione si aggiungeva la preoccupazione del non sapere; nella casa, vuota e silenziosa, Carlo ed io ci sfioravamo come navi nella nebbia senza mai toccarci, quasi senza parole,come se Lala avesse portato con sé anche il nostro amore.






Decidemmo di comune accordo di non accettare la custodia di altri bambini, ci sarebbe sembrato di fare un torto a Lala inoltre,in cuor nostro, continuavamo a sperare nel suo ritorno.
La mia attesa terminò in un giorno come tanti altri: rientrai prima del previsto dalla mia passeggiata quotidiana, la casa avrebbe dovuto essere vuota, ma udii  lievi e inusuali rumori provenire dal salotto, mi avvicinai con cautela; il mio cervello impiegò parecchi istanti per dare un senso a ciò che gli occhi vedevano: Carlo, nudo dalla cintola in giù, si agitava in modo inequivocabile sul corpo di una donna della quale scorgevo solo le gambe, intrecciate sul dorso di mio marito.
Urlai in preda alla rabbia e allo stupore e ogni movimento cessò come in un fermo immagine, poi Carlo si voltò fissandomi con occhi attoniti nel volto paonazzo, anche la donna cambiò posizione e il suo volto entrò nel mio campo visivo.
“LALA?!” Non potevo credere a ciò che vedevo.
“Come stai, mamma?” Ribatté lei, marcando con sarcasmo sull’ultima parola.
Durante la separazione seppi che, quasi subito dopo la sua partenza, Carlo era riuscito a rintracciarla e aveva proposto alla madre di affidarcela in via ufficiosa,la donna aveva rifiutato concedendo però, a mio marito e me, di far visita alla ragazza quando lo avessimo desiderato.
Io non lo seppi mai.
Negli anni che seguirono, l’affetto filiale che legava Lala e Carlo si trasformò in “un’incontrollabile passione”, come la definivano loro, che crebbe fino a culminare nell’edificante







scena cui avevo assistito nel mio salotto.
Non creai ostacoli alla loro unione, quello che avevo scoperto aveva ucciso in me ogni volontà di reagire, ogni possibilità di perdono.
La voce roca di Lala mi riporta al presente:”Sono venuta a darti una buona notizia: aspetto un bambino…- Distolgo l’attenzione dalla screpolatura, una dimenticata sensazione di leggerezza e pace m’invade mentre Lala prosegue – Considerata questa nuova condizione, Carlo ed io pensiamo che tu debba lasciare questa casa a noi e al nostro bambino. Del resto il giudice avrebbe dovuto darcela subito, tu non ne hai mai avuto bisogno”.
Sorrido:”Carlo sarà felicissimo, ha sempre desiderato essere padre.Voglio darti una cosa per lui,permetti?” Mi dirigo alla mia scrivania e ne traggo una voluminosa busta che porgo a Lala; osservo la sua espressione passare dalla curiosità allo stupore ed infine alla disperazione, mentre esamina i documenti :”Va tutto bene, cara?” Chiedo con intenzione.
La sua voce è così bassa da essere appena percettibile:”Non è vero…Tu sei sterile, tu non Carlo!”.
“Questo è ciò che gli ho fatto credere. Vedi, io l’amavo e sapendo quanto grande fosse il suo desiderio di paternità, non ho potuto dirgli che a causa sua non avremo mai avuto figli”.
Lentamente, come gravata da un peso insopportabile, Lala si alza in piedi, il volto pallidissimo:” Gli dirai tutto, vero?”. La guardo,improvvisamente è meno sicura e spavalda, meno dannatamente bella.
“Perché dovrei,- rispondo con ironia - Carlo ha già ciò che merita: te”.
Improvvisa una risata mi sale in gola, così prepotente da togliermi il fiato e farmi salire le lacrime agli occhi.
Sto ancora ridendo quando sento la porta d’ingresso chiudersi su Lala.

Nessun commento:

Posta un commento