mercoledì 24 novembre 2010

Caffè e cornetto (1° classificato 46° ed.concorso di narrativa Loris Biagioni)

 CAFFE’ E CORNETTO


Non si dovrebbe iniziare la giornata desiderando di strangolare qualcuno: è un atteggiamento assolutamente negativo nei confronti del prossimo.
Eppure, quando il Rag. Righi, tutte le mattine veniva svegliato dalla moglie con una zaffata di alito acido in pieno viso e un calcio negli stinchi, il suo primo istinto era quello di mettere le mani intorno al collo di gallina della consorte e stringere a dovere, fino a vedere quegli occhi pallidi e cisposi schizzare fuori dalle orbite.
Invece, vinta la quotidiana tentazione, si alzava docilmente e ignorando l’ormai perenne mal di testa,  peggiorato da quando la premurosa coniuge aveva insistito perché dormisse senza cuscino, per curarsi un’artrosi cervicale di cui non soffriva, si trascinava in cucina per il rito del caffè.
Chiamare “caffè”  la brodaglia d’orzo che ormai da tempo aveva sostituito l’aromatica e corroborante bevanda, equivaleva quasi a un sacrilegio, ma gli piaceva conservare almeno il ricordo di tempi migliori.
 La sua vita non era mai stata straordinaria, a malapena ordinaria e forse anche meno: dall’alba dei tempi era sposato alla stessa donna e allo stesso impiego e detestava entrambi.
 Il matrimonio non gli aveva portato figli, ma quel vuoto era stato abbondantemente colmato da una pinguissima cognata, zitella e nullatenente, oltre che sedicente cardiopatica, che aveva notevolmente contribuito a rovinargli l’esistenza.
L’ultima trovata della mastodontica signorina era stata, appunto, l’eliminazione del caffè, notoriamente dannoso al cuore.
“Molto meglio - aveva sentenziato l’odiosa saccente - una bella tazza d’orzo: rinfresca”.
Sarebbe stato interessante approfondire il significato di quel “rinfresca”, ma lui si era ben guardato dal sollevare la questione, onde evitare di ritrovarsi intrappolato nell’ennesima, dotta
disquisizione della cognata sulle funzioni intestinali. Più saggio tacere e ingoiare l’orrendo beveraggio accompagnato da una formella di crusca che: “ … è una spazzola per l’intestino”
“ Ne avrai bisogno tu!” pensò il Rag. Righi, rivolgendosi mentalmente al donnone, mentre disponeva sul vassoio due tazze d’orzo con rispettive formelle e si apprestava a servire le “signore”  a letto.
Si presentò prima in camera della cognata: i trambusti intestinali di cui la donna era vittima avevano fatto il turno di notte;  l’aria della piccola camera ne era così pregna da sembrare impossibile che chiunque potesse sopravvivere respirandola. Ma la signorina Fifì, che inspiegabilmente associava un nome da  Chiwawa ad un aspetto da San Bernardo, contrariamente ad ogni logica, accolse il disgustato cognato cinguettando come un usignolo : “ Buongiorno, buongiornooo!”
Non ricevendo in risposta altro che un grugnito, Fifì atteggiò le labbra sottili, propriamente ornate da un egregio paio di baffetti, in quello che avrebbe dovuto essere un broncio civettuolo, che  apparve seducente come una pernacchia agli occhi dell’esasperato Righi il quale, abbandonato  il cibo sull’ampio grembo della cognata, fuggì dalla stanza come una mosca dalla tela di un ragno.
La “leggiadra”  Fifì  lo perseguitava, con una corte serrata da più di vent’anni, cioè da quando si era trasferita in pianta stabile in casa sua. Tutto accadeva sotto lo sguardo benevolo della legittima consorte del Rag. Righi che aveva designato la sorella minore a sostituirla in tutto e per tutto, una volta che lei fosse passata a miglior vita.
In realtà la signora Righi godeva di una salute perfetta, ma provava un piacere perverso nel
sentirsi vittima delle più esotiche e rare malattie, soprattutto se incurabili.
Vivendo e prosperando nella certezza di una morte prematura, la previdente signora, aveva organizzato il futuro del marito in modo perfetto: nulla sarebbe cambiato per lui dopo la sua dipartita.
Si sentiva molto fiera di se stessa e negli occhi le brillavano lacrime di coraggioso martirio quando raccontava, a chiunque fosse disposto ad ascoltarla e non, come avrebbe lasciato: “Righi sistemato” prima di andare.
Il pensiero che il marito potesse non gradire tale “sistemazione”,  non la sfiorava neppure: da quando quell’uomo  sapeva cos’era meglio per lui?
L’inetto entrò in camera da letto portando la colazione. La moglie sedeva rigida come un manico di scopa, le spalle appoggiate contro la testiera del letto; tra le mani  intrecciate teneva un foglietto che scambiò con la tazza d’orzo che il marito le porgeva.
“ La lista” disse secca. Aveva un modo di parlare e un tono di voce, che la facevano sembrare un sergente di cavalleria con le emorroidi.
“Leggi - sorbì rumorosamente il beverone - capito?”
Il Rag. Righi assentì mestamente consultando la lista: adempierla  gli sarebbe costato la pausa pranzo e almeno un’ora in più d’auto nel traffico bestiale dell’ora di punta, ma si rassegnò senza discutere.
Sarebbe stato comunque inutile chiedere alla moglie perché spettasse sempre a lui sbrigare tutte le incombenze possibili e immaginabili, mentre lei e la sorella scandivano le loro giornate sul palinsesto televisivo. Avrebbe soltanto scatenato una sequela infinita di lamentele che sarebbe sfociata nell’ immancabile crisi di autocommiserazione e  conseguente  ricaduta in una delle sue innumerevoli malattie, con relativo allettamento per giorni. Meglio evitare di trasformare il purgatorio in inferno.
  Curvo e rassegnato, accompagnato dal solito gentile saluto della moglie: “Riga dritto, Righi!”
il ragioniere lasciò la stanza, apprestandosi a sopravvivere a un’altra giornata.
Impacchettato nell’abito grigio,  strangolato dalla  detestata cravatta, il Rag. Righi si avviò, zoppicando un poco a causa delle scarpe, che sceglieva appositamente strette, per avere almeno un motivo di sollievo nel togliersele tornando a casa la sera, verso l’autorimessa.

Il pensiero che a breve avrebbe perpetrato per l’ennesima volta l’orrendo crimine, eludendo abilmente e impunemente la ferrea sorveglianza della moglie, lo rendeva euforico e fiero di sé.
Caffè e cornetto: sublime connubio! L’aromatica, forte fragranza dello scuro liquido che si unisce sulla lingua al soffice, dolce sapore di un burroso cornetto: il tumulto dei sensi, un attimo di piacere perfetto e, finalmente, la pace dell’appagamento.
Il Rag. Righi era stato iniziato alla pratica clandestina della colazione al bar da suo padre, Rag. Righi lui pure,  nell’ormai lontano giorno in cui questi, prossimo alla pensione, gli aveva passato le consegne.
All’epoca lui non era che uno sbarbatello: ardito architetto di castelli in aria e assertore irriducibile del “nulla è impossibile” .  Quella mattina, seduto accanto al padre, nella loro traballante utilitaria, il giovane Righi fremeva di malcelata impazienza: un futuro senza orizzonti si spalancava davanti ai suoi occhi.
Presto sarebbe subentrato al padre nell’impiego, avrebbe guadagnato e con l’indipendenza economica sarebbero arrivate tutte quelle “ cose inutili”,  come le definiva sua madre, che lui trovava tanto attraenti: pizza e cinema con gli amici il sabato sera, il campeggio d’estate, un giradischi e un’auto tutta sua… Volava la fantasia alla sportiva rossa, il cui modellino, posto su una mensola alta di camera sua, ammirava da anni.
La fermata, improvvisa e inaspettata, lo aveva riportato bruscamente alla realtà; senza apparente motivo suo padre aveva parcheggiato  in una piazzetta da cartolina, tutta aiuole fiorite e negozietti variopinti, e ora stava scendendo dall’auto con una strana espressione dipinta sul volto: simile a quella di un monello malizioso in procinto di combinarne una veramente grossa.
Lo seguì perplesso e un po’ seccato, era ansioso di arrivare al lavoro: non voleva fare tardi il suo primo giorno.

Fu sorpreso quando s’accorse che il padre lo stava conducendo in un bar, aveva sempre sentito  sua madre e le altre “pie donne” parlare di quei luoghi in modo sprezzante, pronunciando con tono di rimprovero frasi come: “Quello si beve tutto al bar…” oppure: ”Era un brav’uomo: si è perso quando ha cominciato ad andare al bar…”, non avrebbe mai immaginato che suo padre frequentasse quei “luoghi di perdizione” .
Ma la sorpresa divenne stupore quando il loro ingresso fu salutato con gioviale cordialità, sia dall’uomo grassoccio dietro al bancone, che da molti degli avventori presenti.
Il Rag. Righi aveva guardato suo padre scoprendo un uomo nuovo: ben dritto, lui di solito sempre un po’ curvo, aveva risposto ai saluti con affabilità e un bel sorriso poi, con voce ferma, aveva ordinato : “ Il solito per due”.
L’ometto dietro al banco si era voltato, armeggiando velocissimo e sicuro, come il personaggio di un film muto e in meno di un minuto li aveva serviti.
“ Fa’ come me” gli aveva detto il padre.
Con la concentrazione di un sommelier si era bagnato la bocca con una goccia di caffè ristretto e amaro, facendo schioccare ogni tanto le labbra, quindi aveva scelto dal vassoio un cornetto ben tornito, dalla superficie lucida e dorata, e l’aveva delicatamente diviso a metà. Prima aveva mangiato la parte con meno farcitura, annaffiandola con un altro sorsetto di caffè, poi si era dedicato, quasi con devozione, alla marmellata, togliendola dalla cavità pastosa del cornetto con piccoli colpi della lingua. Quando la farcia era terminata, Righi padre aveva gustato la pasta soffice, accompagnata dal caffè rimasto.
Affascinato dall’espressione di beatitudine dipinta sul volto del padre, il giovane Righi lo aveva imitato, sviluppando da quel giorno una dipendenza assoluta da caffè e cornetto.
Inizialmente la colazione al bar era stata solo un piacevole diversivo all’onnipresente zuppa di pane e latte che sua madre gli propinava ogni mattina per colazione, ma ben presto, prima con il naufragare delle sue illusioni lavorative in un mare di aberranti scartoffie, poi con la caduta incosciente nel suo matrimonio capestro, quell’unico momento che era riuscito a conservare per se stesso, era diventato il fulcro della sua piatta esistenza.
Con gli anni aveva compreso perché il padre lo avesse addestrato a quell’innocente piacere:
entrare nel bar la mattina gli dava quella sensazione di  calore che non trovava mai rientrando a casa sua. Maria, la bella proprietaria, lo accoglieva sempre con un sorriso e servendogli  al tavolo un fragrante cornetto, accompagnato da un caffè forte e cremoso, talvolta gli sfiorava la spalla con il seno generoso, facendolo sentire, per un momento, un uomo molto amato.
Spinse la porta già pronto al saluto, ma fu accolto da un silenzio di ghiaccio: Maria, di solito sempre in movimento, stava ferma dietro al bancone con le mani poggiate sul ripiano; aveva gli occhi dilatati e il volto pallidissimo. Anche le persone sedute ai tavoli tenevano le mani in vista, con le dita ben divaricate. Tutti erano incredibilmente fermi e zitti.
Il Rag. Righi non ebbe il tempo di realizzare la scena, che subito un violento spintone lo proiettò all’interno del locale. Incespicò su se stesso, riuscendo a stento a mantenere l’equilibrio, quando ritrovò la posizione eretta gli parve di trovarsi su un set cinematografico: due balordi con i volti coperti da occhiali scuri e bandane, armati di coltelli e spranghe, minacciavano i presenti pretendendo denaro e gioielli.
 Righi, attonito, non riusciva a capacitarsi che una cosa del genere stesse accadendo nel suo bar; si sentì offeso e ferito, come un uomo cui stessero rapinando la casa.
Terminato di ripulire i presenti i malviventi intimarono a Maria di consegnare l’incasso; la donna vuotò la cassa, ma la somma era minima e i due rapinatori, divenuti nervosi e violenti, cominciarono a distruggere tutto ciò che capitava loro a tiro: bottiglie, vetrine, bicchieri…i cocci volavano ovunque per poi ricadere sul pavimento ricoprendolo.

La povera Maria, vedendo andare in frantumi il lavoro di anni, iniziò a piangere e urlare  attirando l’attenzione di uno dei due rapinatori che, per farla tacere, le afferrò i capelli strattonandoli violentemente. Terrorizzata la donna si divincolò dalla presa con tale forza, che una grossa ciocca restò nella mano dell’uomo e un rivoletto di sangue cominciò a colare sulla tempia di Maria.
Disturbati dalle urla isteriche della donna, i due delinquenti decisero che era tempo di alzare i tacchi e si avviarono alla porta.
Vedere Maria, per la quale nutriva i più teneri sentimenti, vessata e sanguinante, fece scattare in Righi, di solito così mite e sottomesso, un primordiale istinto di ribellione: non voleva che quei due la passassero liscia.
Il rapinatore che aveva strappato i capelli a Maria gli passò accanto correndo, Righi allungò il piede facendolo inciampare poi, fulmineo, afferrò una sedia e colpì con forza l’uomo già a terra. Il secondo rapinatore si precipitò in aiuto del compagno caduto, trascurando scioccamente il Righi che usò la stessa sedia di poc’anzi, per fracassare il naso del balordo  che s’accasciò sul compagno, come un sacco vuoto.
“Ecco un bel mucchio di letame!” esclamò il Rag. Righi, trovando la forza di sottolineare la propria bravata, prima di cadere svenuto per l’emozione e la paura postuma.
Si risvegliò, pochi minuti dopo, tra le braccia grate e profumate di Maria: era bellissima.
 Anche con il trucco sfatto e il sangue raggrumato tra i capelli arruffati, restava la donna più desiderabile che conoscesse.
Deciso a godersi fino in fondo quel momento di gloria,  Righi affondò il viso tra i seni morbidi e accoglienti di Maria poi, ancora confuso, ma non senza una calcolata dose di acquisita spacconeria, ordinò: “Caffè e cornetto”.



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